Antologia
Una stirpe sciagurata
Lâattestazione piĂč antica che possediamo sul problema della sepoltura degli eroi argivi ricorre nella perduta tragedia di Eschilo intitolata Eleusinii (475 a.C.). In essa, secondo quanto si puĂČ ricostruire dai due frammenti superstiti e, inoltre, dalla testimonianza di Plutarco, si narrava come il re Teseo fosse riuscito a persuadere i Tebani a restituire i corpi dei caduti, facendo leva non sulla violenza ma sulla forza delle parole. Non sappiamo se la figura di Antigone fosse contemplata nellâintreccio, ad ogni modo la tragedia introduceva un tema che sarebbe stato a piĂč riprese sondato dai tragediografi attici. Anche il motivo della famiglia che si annienta da sĂ© fu valorizzato, in primo luogo, da Eschilo. Nel dramma I sette contro Tebe, ultimo di una trilogia che comprendeva Laio ed Edipo e che scandiva il progressivo disfacimento dei Labdacidi, il leggendario scontro tra Tebani e Argivi assume una declinazione prettamente familiare, e a essere messa a fuoco Ăš la dimensione fratricida del conflitto. Eteocle e Polinice sono attratti nellâorbita di una maledizione senza scampo, che investe tutte le generazioni della stirpe e che rende odiosi i figli maschi agli occhi del genitore. Ancor prima dei due fratelli, allo stesso Edipo era toccato in sorte, infatti, di essere rinnegato dal padre Laio. La parte finale della tragedia antepone al motivo della salvezza di Tebe, finalmente affrancata dalla minaccia delle soldatesche argive, quello del lutto familiare. Spetta al coro delle donne tebane il compito di guidare la partecipazione emotiva degli spettatori verso la straziante morte di Eteocle e Polinice: non la gioia collettiva e il tema della liberazione della cittĂ , ma il dramma privato del clan familiare prende il sopravvento su tutto.
CORO: O grande Zeus e voi, numi che proteggete la cittĂ , a cui piacque di salvare queste torri cadmee, dunque esulterĂČ, festivo canto innalzerĂČ per chi indenne salvĂČ la mia cittĂ o piangerĂČ quei miseri quei disgraziati quei morti senza figli che della guerra furono signori e veramente fomentatori di contese per empio ardore morirono?
Oh nera, oh adempiuta maledizione della stirpe di Edipo, duro gelo mi soffoca il cuore. Qual tiade foggiai per il sepolcro un canto, poi che di cadaveri udii dal sangue aspersi, poi che di gente udii miseramente spenta. E segni infausti accenna questo concerto dâaste.
Il fine giunse nĂ© si placĂČ del padre lâimprecante voce. Il tempo hanno varcato la smanie indocili di Laio. Sono in pena per la cittĂ : non si ottundono i profetici messaggi. Oh miserabili! Compiere gesto cosĂŹ infame! Rovina Ăš giunta di profondi «ahi ahi» ben degna.
(Avanzano alcuni servi, che trasportano i cadaveri dei fratelli)
Ben si vede il lutto: davanti agli occhi ci sta lâannuncio del messo. Doppia pena doppio male guardare possiamo, questa duplice vicendevole adempiuta sofferenza. Che dire? Che altro se non patimenti a patimenti congiunti? E ora, mie care, vogate al vento dei sospiri, con le mani calate sul capo il battito che sospinge il battito che senza requie per lâAcheronte traghetta il disadorno corteo trapunto di nero desolato di luce non calcato da Apollo, verso il paese oscuro che tutti accoglie.a
Il funerale mancato
Lâunico tempo che Antigone vive, nel teatro di Sofocle, Ăš quello della cura e della memoria dei suoi consanguinei. Prima di sfidare le leggi della polis per garantire una forma di sepoltura al fratello, la donna aveva difeso il diritto del padre a ricevere un luogo che ospitasse le sue reliquie. La misteriosa sparizione cui va incontro Edipo al termine della sua vita lascia, perĂČ, Antigone e Ismene nellâimpossibilitĂ di assolvere pienamente alla loro funzione e ai loro doveri religiosi. Una morte canonica avrebbe comportato che le figlie si prendessero cura della salma e che la accompagnassero con i loro lamenti, seguendola in corteo. Nessuno di questi atti rituali, invece, trova compimento, nĂ© tantomeno Ăš possibile recare le consuete offerte sulla tomba, la cui ubicazione Ăš destinata a rimanere segreta per evitare che sia profanata. Privata di tutto questo e, dunque, dellâopportunitĂ di continuare a rivolgere al padre la sua pietas filiale, Antigone perde la ragione stessa del suo vivere, si sente disorientata e invoca la morte. In una famiglia in cui il corretto procedere della riproduzione devia dalla norma e i ruoli si sovrappongono in maniera inestricabile â Antigone Ăš insieme figlia e sorella di Edipo â, il tempo dellâesistenza si riavvolge su se stesso e non lascia intravedere altri orizzonti possibili allâinfuori di quelli della famiglia naturale.
ANTIGONE: Ritorniamo, Ismene; corriamo laggiĂč!
ISMENE: LaggiĂč? Per che fare?
ANTIGONE: Un desiderio mi viene.
ISMENE: Un desiderio?
ANTIGONE: SĂŹ, di vedere il focolare sotterraneo, di vedere la casa, lâaltra casa.
ISMENE: Quale casa? Di chi?
ANTIGONE: La casa che abita mio padre. Povera me, la sua tomba.
ISMENE: Non sai che Ăš proibito? E poi, non vedi?...
ANTIGONE: Perché ti opponi?
ISMENE: Ma vediâŠ
ANTIGONE: Che câĂš ancora?
ISMENE: CâĂš che lui Ăš scomparso, senza tomba, lontano da tutti.
ANTIGONE: Allora portami lĂ e uccidimi.
ISMENE: E mi lasceresti sola nel dolore a passare la vita senza nessuno?
CORIFEO: Ma non dovete temere, care.
ANTIGONE: Dove fuggire?
CORIFEO: Avete un rifugio, un riparo.
ANTIGONE: Un riparo, tu dici?
CORIFEO: Un riparo dalla sorte, se ancora vi minaccia.
ANTIGONE: Pensavo adessoâŠ
CORIFEO: Che cosa ti preoccupa?
ANTIGONE: Pensavo al modo di ritornare a Tebe. Ma come non so.
CORIFEO: Non cercare un ritorno lĂ .
ANTIGONE: Un peso mi opprime.
CORIFEO: Anche prima ti opprimeva un peso.
ANTIGONE: Prima senza rimedio. Ma questo di oggi Ăš un male piĂč forte.
CORIFEO: Un mare di affanno, non altro voi conoscete.
ANTIGONE: Proprio cosĂŹ. Dove andremo? Chi sa dove ancora ci mena la sorte? Quale speranza possiamo avere?
TESEO: Figliuole, molto avete pianto. E non bisogna piangere una grazia che sorge dal profondo della terra e si spande su tutti. Gli dĂši non lo permettono.
ANTIGONE: Figlio di Egeo, siamo ai tuoi piedi: guardaci!b
La natura in rivolta
Il seppellimento di Polinice, negato dallâeditto di Creonte, Ăš ugualmente attuato dalle mani pietose della sorella, che versa un pugno di polvere sul suo cadavere. Nellâistante in cui tutto questo accade, le guardie denunciano un fenomeno che sfugge allâordine della normalitĂ : in pieno sole, si solleva una tempesta di polvere nella quale gli uomini non possono fare a meno di riconoscere «una sciagura inviata dal cielo» e un «divino flagello». Il divieto imposto da Creonte si rivelerĂ offensivo tanto per gli dĂši superni che per le divinitĂ dellâAde, poichĂ© nei fatti esso inverte la funzione destinata a questi due spazi: non Ăš lecito, infatti, trattenere un morto sulla terra (il cadavere di Polinice) e confinare un essere vivente sottoterra (Antigone sepolta nella grotta), secondo quanto proferirĂ lâindovino Tiresia sul finire della tragedia. Lâuragano a ciel sereno Ăš il segno, dunque, che la natura Ăš in rivolta e che gli dĂši manifestano il loro dissenso. Antigone si rivela agli occhi delle guardie proprio allo svanire di questa bufera, ma tutto accade in uno spazio lontano da quello del teatro e dagli occhi degli spettatori, nel luogo in cui giace abbandonato il corpo di Polinice. Il gesto fatale compiuto dallâeroina, insomma, rivive nelle parole della guardia armata che la trascina al cospetto di Creonte ma non nella realtĂ scenica. Proprio per tale ragione, nellâimmaginario degli spettatori, lâimpresa doveva assumere un piĂč grande potere di suggestione e la presenza di Antigone, che per tutto il tempo del racconto rimaneva inerme, immobile e silenziosa, doveva suscitare piĂč forti emozioni.
CORO: Che cosa vedo? Incredibile: questa fanciulla Ăš Antigone, la riconosco. O figliuola sventurata di un padre sventurato, di Edipo; che accade mai? Tu, prigioniera? Tâhanno sorpresa forse in un momento di follia? Hai rotto forse tu la legge del re?
GUARDIA: Eccola qui. Lâimpresa lâha compiuta lei. Lâabbiamo cĂČlta nel momento che seppelliva⊠Ma dovâĂš Creonte?
CORO: Esce ora dal palazzo di nuovo, e bene a proposito.
CREONTE: A quale caso devo il mio giungere opportuno?
GUARDIA: Signore, gli uomini non dovrebbero mai giurare su nulla: la riflessione smentisce il sentimento. Io non avrei certo creduto di ritornare tanto presto, sfuggito comâero a quelle tue minacce. Ma la gioia impr...