Suo padre telefonava il mercoledĂŹ sera, tra le otto e le otto e un quarto. Negli ultimi nove anni si erano visti poche volte e dallâultima era giĂ passato molto tempo, ma il telefono non aveva mai squillato a vuoto nel bilocale di Mattia. Nelle lunghe pause tra le parole emergeva lo stesso silenzio dietro entrambi, niente televisioni o radio accese, mai degli ospiti a far tintinnare le posate sui piatti.
Mattia riusciva a immaginare sua madre che dalla poltrona ascoltava la telefonata senza cambiare espressione, con entrambe le braccia appoggiate ai braccioli, come quando lui e Michela facevano le elementari e lei si sedeva lĂŹ ad ascoltarli recitare le poesie a memoria e Mattia le sapeva sempre mentre Michela taceva, incapace di qualunque cosa.
Ogni mercoledĂŹ, dopo aver riagganciato, Mattia si trovava a domandarsi se il rivestimento a fiori arancio della poltrona fosse ancora lo stesso o se i suoi lâavessero sostituito, logoro comâera giĂ a quel tempo. Si domandava se i suoi fossero invecchiati. Di certo erano invecchiati, lo sentiva nella voce di suo padre, piĂč lenta e affaticata. Lo sentiva dal suo respiro, che si era fatto rumoroso nel telefono, sempre piĂč simile a un affanno.
Sua madre prendeva in mano la cornetta solo ogni tanto e le sue erano domande di rito, sempre le stesse. Fa freddo, hai giĂ cenato, come vanno i tuoi corsi. Qui si cena alle sette, aveva spiegato Mattia le prime volte. Ora si limitava a dire sĂŹ.
«Pronto?» rispose.
Non câera alcun motivo per dirlo in inglese. Il suo numero di casa ce lâavevano sĂŹ e no dieci persone e nessuna di loro si sarebbe sognata di cercarlo a quellâora.
«Sono papà .»
Il ritardo nella risposta era appena apprezzabile. Mattia avrebbe dovuto portarsi un cronometro per misurarlo e poter calcolare quanto il segnale deviasse dalla linea retta di oltre mille chilometri che congiungeva lui e suo padre, ma se ne dimenticava ogni volta.
«Ciao. Stai bene?» disse Mattia.
«SÏ. E tu?»
«Bene⊠La mamma?»
«à qui.»
Il primo silenzio cadeva sempre in questo punto, come una boccata dâaria dopo la prima vasca in apnea.
Mattia raschiĂČ con lâindice la scalfittura nel legno chiaro del tavolo rotondo, a circa una spanna dal centro. Non si ricordava neppure se lâaveva fatta lui o se erano stati i vecchi inquilini. Appena sotto la superficie smaltata câera del truciolato compresso, che gli finĂŹ sotto lâunghia senza fargli male. Ogni mercoledĂŹ scavava quella fossetta di qualche frazione di millimetro, ma non gli sarebbe bastata una vita intera per passare dallâaltra parte.
«Allora lâhai vista, lâalba?» chiese suo padre.
Mattia sorrise. Era un gioco che câera tra di loro, lâunico forse. Circa un anno prima, da qualche parte in un giornale, Pietro aveva letto che lâalba sul mare del Nord Ăš unâesperienza imperdibile e la sera aveva letto il trafiletto al figlio, per telefono. Devi andarci assolutamente, gli aveva raccomandato. Da quel giorno glielo chiedeva, di tanto in tanto: allora lâhai vista? Mattia rispondeva sempre no. La sua sveglia era puntata alle otto e diciassette minuti e la strada piĂč breve per lâuniversitĂ non passava dal lungomare.
«No, ancora niente alba» rispose.
«Beâ, tanto non scappa» fece Pietro.
Rimasero giĂ senza parole, ma indugiarono qualche secondo, con la cornetta appoggiata allâorecchio. Entrambi respirarono un poâ di quellâaffetto che ancora resisteva tra di loro, diluito lungo centinaia di chilometri di cavi coassiali e alimentato da qualcosa di cui non sapevano il nome e che forse, se ci avessero pensato bene, non esisteva piĂč.
«Mi raccomando, allora» disse Pietro alla fine.
«Certo.»
«E cerca di stare bene.»
«Okay. Saluta la mamma.»
Riagganciarono.
Per Mattia era la fine della giornata. GirĂČ intorno al tavolo. GuardĂČ distrattamente i fogli impilati da una parte, con il lavoro che si era portato dallâufficio. Era ancora inchiodato su quel passaggio. Da dovunque prendessero la dimostrazione, lui e Alberto finivano sempre per andarci a sbattere contro, prima o poi. Se lo sentiva che dietro quellâultimo ostacolo câera la soluzione, che passato quello arrivare al fondo sarebbe stato facile, come lasciarsi rotolare giĂč da un prato a occhi chiusi.
Era troppo stanco per riprendere il lavoro. AndĂČ in cucina e riempĂŹ un pentolino con lâacqua del rubinetto. Lo mise sui fornelli e accese il fuoco. Passava cosĂŹ tanto tempo da solo che una persona normale sarebbe impazzita nel giro di un mese.
Si sedette sulla sedia pieghevole di plastica, senza rilassarsi del tutto. AlzĂČ gli occhi verso la lampadina che pendeva dal centro del soffitto, spenta. Si era fulminata appena un mese dopo lâarrivo di Mattia e lui non lâaveva mai sostituita. Mangiava con la luce accesa nellâaltra stanza.
Se quella sera fosse semplicemente uscito dallâappartamento e non ci fosse piĂč tornato, nessuno avrebbe trovato lĂ dentro dei segni del suo passaggio, a esclusione di quei fogli incomprensibili ammucchiati sul tavolo. Mattia non ci aveva messo nulla di sĂ©. Si era tenuto lâarredamento anonimo in rovere chiaro e quella tappezzeria ingiallita, appiccicata ai muri da quando la casa era stata costruita.
Si alzĂČ. VersĂČ lâacqua bollente in una tazza e ci immerse una bustina di tĂš. GuardĂČ lâacqua colorarsi di scuro. La fiammella di metano era ancora accesa e nella penombra era di un azzurro violento. AbbassĂČ il fuoco fin quasi a spegnerlo e il sibilo si affievolĂŹ. AvvicinĂČ la mano al fornello, dallâalto. Il calore esercitava una debole pressione sul suo palmo devastato. Mattia la fece scendere, lentamente, e la chiuse intorno alla fiamma.
Gli veniva in mente ancora adesso, dopo le centinaia e poi migliaia di giornate tutte uguali trascorse allâuniversitĂ e gli altrettanti pranzi consumati alla mensa, nella palazzina bassa in fondo al campus. Si ricordava del primo giorno in cui era entrato e aveva copiato la sequenza dei gesti dalle altre persone. Si era messo in coda e a piccoli passi aveva raggiunto la pila dei vassoi di legno plastificato. Vi aveva disposto sopra la tovaglietta di carta, si era munito delle posate e di un bicchiere. Poi, una volta di fronte alla signora in divisa che faceva le porzioni, aveva indicato una delle tre vaschette di alluminio, a caso, senza sapere che cosa ci fosse dentro. La cuoca gli aveva chiesto qualcosa, nella sua lingua o forse in inglese, e lui non aveva capito. Aveva di nuovo indicato la vaschetta e quella aveva ripetuto la domanda, uguale identica a prima. Mattia aveva scosso la testa. I donât understand, aveva detto, con una pronuncia spigolosa e stentata. La signora aveva alzato gli occhi al cielo e aveva sventolato per aria il piatto ancora vuoto. Sheâs asking if you want a sauce, aveva detto il ragazzo di fianco a Mattia. Lui si era girato di scatto, disorientato. Io⊠I donâtâŠ, aveva detto. Sei italiano?, gli aveva fatto quello. SĂŹ. Ti ha chiesto se vuoi una salsa in quella porcheria. Mattia aveva scosso la testa, frastornato. Il ragazzo si era voltato verso la signora e le aveva detto semplicemente no. Lei gli aveva sorriso e finalmente aveva riempito il piatto di Mattia e lâaveva fatto scivolare sul ripiano. Il ragazzo aveva preso lo stesso e prima di poggiare il piatto sul vassoio se lâera avvicinato al naso e lâaveva annusato con disgusto. Questa roba fa schifo, aveva commentato.
Sei appena arrivato, eh?, gli aveva domandato dopo un poâ, ancora fissando la purea liquida dentro il piatto. Mattia aveva detto sĂŹ e lui aveva annuito accigliato, come se si trattasse di qualcosa di serio. Dopo aver pagato, Mattia era rimasto impalato di fronte alla cassa, con il vassoio stretto tra le mani. Con lo sguardo aveva cercato un tavolo vuoto in fondo alla sala, dove avrebbe potuto dare le spalle a tutti e non sentirsi troppe paia di occhi addosso mentre mangiava da solo. Aveva appena fatto un passo in quella direzione, che il ragazzo di prima gli era passato davanti e aveva detto vieni, da questa parte.
Alberto Torcia era lĂŹ giĂ da quattro anni, con una posizione permanente da ricercatore e un finanziamento speciale, ottenuto dallâUnione europea per la qualitĂ delle sue ultime pubblicazioni. Anche lui era scappato da qualcosa, ma Mattia non gli aveva mai domandato da cosa. Nessuno dei due, dopo tanti anni, avrebbe saputo se definire lâaltro un amico o semplicemente un collega, nonostante condividessero lâufficio e pranzassero insieme tutti i giorni.
Era martedĂŹ. Alberto sedeva di fronte a Mattia e, attraverso il bicchiere pieno dâacqua che lui si portĂČ alle labbra, intravide il nuovo segno, livido e perfettamente circolare, che aveva sul palmo. Non gli chiese nulla, si limitĂČ a guardarlo storto per fargli intendere che aveva capito. Gilardi e Montanari, al tavolo insieme a loro, sghignazzavano di qualcosa che avevano trovato su internet.
Mattia vuotĂČ il bicchiere in un sorso. Poi si schiarĂŹ la gola.
«Ieri sera mi Ăš venuta in mente unâidea per quella discontinuitĂ cheâŠÂ»
«Ti prego, Matti» lo interruppe Alberto, mollando la forchetta e tirandosi indietro sullo schienale. Gesticolava sempre in modo esagerato. «Abbi pietà almeno mentre mangio.»
Mattia abbassĂČ la testa. La fettina di carne nel suo piatto era tagliata a quadratini tutti uguali e lui li separĂČ con la forchetta, lasciando tra di essi una griglia regolare di linee bianche.
«Ma perchĂ© la sera non fai altro?» riprese Alberto piĂč piano, come se non volesse farsi sentire dagli altri due. Mentre parlava disegnava con il coltello dei piccoli cerchi nellâaria.
Mattia non disse nulla e non lo guardĂČ. Si portĂČ alla bocca un quadratino di carne, scelto tra quelli del contorno che con i loro bordi frastagliati disturbavano la geometria della composizione.
«Se tu ogni tanto venissi a bere qualcosa con noi» continuĂČ Alberto.
«No» fece Mattia, secco.
«MaâŠÂ» cercĂČ di protestare il collega.
«Tanto lo sai.»
Alberto scosse la testa e aggrottĂČ la fronte, sconfitto. Ancora insisteva, dopo tutto quel tempo. Da che si conoscevano era riuscito a trascinarlo fuori casa sĂŹ e no una decina di volte.
Si rivolse agli altri due, interrompendoli nel loro discorso.
«Ehi, ma quella lâavete vista?» fece, indicando una ragazza seduta due tavoli piĂč in lĂ in compagnia di un signore anziano. Per quanto ne sapeva Mattia, lui insegnava al dipartimento di Geologia. «Se non fossi sposato, Cristo, cosa le farei a una cosĂŹ.»
Gli altri due ebbero un momento di esitazione, perchĂ© nel loro discorso non câentrava per niente, ma poi lasciarono perdere e andarono dietro ad Alberto mettendosi a fantasticare sul perchĂ© uno schianto del genere fosse finito al tavolo con quel vecchio trombone.
Mattia tagliĂČ tutti i quadratini di carne lungo la diagonale. Poi ricompose i triangoli in modo da formarne uno piĂč grande. La carne era giĂ fredda e stopposa. Ne prese un pezzo e lo ingoiĂČ quasi intero. Il resto lo lasciĂČ lĂŹ dovâera.
Fuori dalla mensa Alberto si accese una sigaretta, per dare a Gilardi e Montanari il tempo di allontanarsi. Attese Mattia, piĂč indietro di qualche passo rispetto a loro, che camminava a testa bassa, lasciandosi condurre da una crepa rettilinea lungo il marciapiede e pensando a qualcosa che non aveva nulla a che fare con lâessere lĂŹ.
«Cosa mi stavi dicendo sulla discontinuità ?» gli fece.
«Non ha importanza.»
«Dà i, non fare lo stronzo.»
Mattia guardĂČ il collega. La punta della sigaretta tra le sue labbra era lâunico colore acceso in quella giornata tutta grigia, uguale alla precedente e di sicuro anche alla successiva.
«Non ce ne possiamo liberare» fece Mattia. «Ormai ci siamo convinti che Ăš lĂŹ. PerĂČ forse ho trovato un modo per cavarne qualcosa di interessante.»
Alberto si fece piĂč vicino. Non interruppe Mattia finchĂ© lui non ebbe finito di spiegargli, perchĂ© lo sapeva che Mattia parlava poco ma, quando lo faceva, valeva la pena di stare zitti e ascoltare.