UNO
PERFETTI SCONOSCIUTI
Luce irruppe nellâatrio illuminato al neon della Sword & Cross School dieci minuti piĂč tardi del dovuto. Un custode dallâampio torace, guance rosse e un blocco per appunti stretto sotto un bicipite di ferro stava impartendo ordini, quindi Luce era giĂ rimasta indietro.
«Allora ricordate: pillole, letti e spie» abbaiĂČ il custode a tre studenti di cui Luce non riusciva a vedere il viso, perchĂ© le davano le spalle. «Ricordatevi le regole di base, e nessuno si farĂ male.»
Luce si infilĂČ rapida nel gruppetto. Stava ancora cercando di capire se aveva compilato nel modo giusto la gigantesca pila di documenti, se quella guida dalla testa rasata era un uomo o una donna, se qualcuno poteva aiutarla a portare lâenorme sacca da viaggio, se i suoi genitori, dopo averla mollata lĂŹ, si sarebbero disfatti della sua amata Plymouth Fury non appena tornati a casa. Avevano minacciato di vendere la macchina per tutta lâestate, e ora avevano un motivo che nemmeno Luce poteva contestare: nella nuova scuola nessuno poteva tenere unâauto. Nel nuovo istituto correzionale, per lâesattezza.
Doveva ancora abituarsi a quella formula.
«Potrebbe, ehm, potrebbe ripetere?» domandĂČ al custode. «Cosâera, pilloleâŠ?»
«Guarda un poâ cosa ci porta il vento» ribattĂ© la guida a voce alta. Poi proseguĂŹ, scandendo piano: «Pillole. Se sei uno studente in terapia, qui Ăš dove venire a prendere quello che ti serve per drogarti, restare sano di mente, respirare o quantâaltro.»
Donna, si disse Luce, studiandola. Nessun uomo sarebbe stato tanto malizioso da usare un tono cosĂŹ dolciastro.
«Capito.» A Luce venne la nausea. «Pillole.»
Non era piĂč sotto farmaci da anni. Dopo lâincidente di quellâestate il dottor Sanford â il suo analista a Hopkinton, nonchĂ© il motivo per cui i suoi genitori lâavevano spedita a scuola nel New Hampshire â aveva preso in considerazione se sottoporla di nuovo alla terapia farmacologica. Nonostante alla fine lei lâavesse convinto di essere quasi stabile, câera voluto un mese in piĂč di analisi per liberarsi di quegli orrendi psicofarmaci.
Ed ecco perchĂ© si era iscritta alla Sword & Cross con un mese di ritardo rispetto allâinizio dellâanno accademico. Essere quella nuova era giĂ abbastanza brutto, ma questa volta câera stata anche lâansia di piombare nel bel mezzo di corsi in cui tutti gli altri si erano giĂ ambientati. A giudicare dalla visita guidata della scuola, perĂČ, Luce non doveva essere lâunica appena arrivata.
ScoccĂČ unâocchiata furtiva agli altri tre, in semicerchio attorno a lei. Nellâultima scuola, Dover Prep, aveva conosciuto cosĂŹ la sua migliore amica, Callie. Tutti gli altri studenti in pratica erano cresciuti insieme, e a loro era bastato essere le uniche a non avere genitori o fratelli che avessero studiato lĂŹ. Ma poco dopo avevano scoperto di condividere la stessa passione per gli stessi vecchi film, soprattutto quelli con Albert Finney. Quando poi, sempre durante il primo anno (mentre guardavano Due per la strada), avevano scoperto che nessuna delle due riusciva a preparare i popcorn senza far scattare lâallarme antincendio, Callie e Luce erano diventate inseparabili. Finché⊠finchĂ© non erano state costrette a dividersi.
Accanto a Luce quel giorno câerano due ragazzi e una ragazza. La ragazza sembrava facile da inquadrare: bionda e carina come in una pubblicitĂ della Neutrogena, con unghie rosa pastello in tinta con la cartellina di plastica.
«Mi chiamo Gabbe» disse strascicando le parole, abbagliandola con un gran sorriso che svanĂŹ con la stessa rapiditĂ con cui era apparso, prima ancora che Luce potesse presentarsi. PiĂč che la ragazza tipo che si aspettava di trovare alla Sword & Cross, quellâinteresse passeggero le sembrĂČ una versione del Sud delle ragazze di Dover. Luce non sapeva dire se fosse consolante o no, e nemmeno riuscĂŹ a immaginare che cosa ci facesse in un correzionale una ragazza del genere.
Alla destra di Luce câera un ragazzo con i capelli corti castani, occhi castani e una spruzzata di lentiggini sul naso. Dal modo in cui evitava di guardarla, limitandosi a tormentarsi una pellicina del pollice, Luce capĂŹ che probabilmente era stordito e imbarazzato quanto lei.
Il ragazzo alla sua sinistra, invece, combaciava fin troppo bene con lâidea che Luce si era fatta di quel posto. Era alto e magro, con una borsa da DJ appesa alla spalla, capelli neri arruffati e occhi verdi, grandi e profondi. Aveva le labbra piene, di un rosa per cui molte ragazze avrebbero dato qualsiasi cosa. Dal bordo della maglietta nera, sulla nuca, spuntava il tatuaggio di un sole che sulla pelle chiara pareva quasi risplendere.
A differenza degli altri due, quando si voltĂČ a guardarla, il ragazzo non distolse gli occhi. Il sorriso era forzato, ma lo sguardo era caldo e vivace. La fissĂČ, immobile come una statua, e anche Luce si sentĂŹ inchiodata al suolo. Trattenne il respiro. Quegli occhi erano intensi, seducenti e beâ, disarmanti.
Schiarendosi rumorosamente la gola, la custode strappĂČ il ragazzo al suo sguardo trasognato. Luce arrossĂŹ e finse di essere molto occupata a grattarsi la testa.
«Quelli di voi che sanno giĂ tutto sono liberi di andare dopo aver buttato via gli oggetti vietati.» La custode indicĂČ una grossa scatola di cartone sotto un cartello che diceva a grandi lettere nere OGGETTI PROIBITI. «E quando dico liberi, Todd» calĂČ una mano sulla spalla del ragazzo con le lentiggini, facendolo sussultare «intendo obbligati a incontrare le vostre guide.» PuntĂČ il dito contro Luce. «Tu, via la roba vietata e rimani con me.»
I quattro si avvicinarono alla scatola e Luce vide, sconcertata, che i ragazzi cominciavano a svuotarsi le tasche. La ragazza estrasse un coltellino svizzero rosa da dieci centimetri. Il tipo dagli occhi verdi si separĂČ con una certa riluttanza da una bomboletta di vernice spray e un taglierino. Perfino il povero Todd lasciĂČ cadere nello scatolone parecchie confezioni di fiammiferi e una piccola bomboletta di gas per accendini. Luce si sentĂŹ quasi stupida a non avere niente di pericoloso con sĂ©, ma quando vide gli altri frugare nelle tasche e buttare i cellulari nella scatola, rimase a bocca aperta.
Chinandosi in avanti per leggere piĂč da vicino la scritta OGGETTI PROIBITI, notĂČ che cellulari, cercapersone e ogni altro apparecchio di trasmissione e ricezione erano severamente proibiti. Come se non fosse giĂ abbastanza brutto non avere unâauto! Luce strinse con la mano sudata il telefono che teneva in tasca, il suo unico collegamento con il mondo esterno. La custode colse il suo sguardo, e la schiaffeggiĂČ leggermente sulla guancia. «Non svenirmi addosso, piccola, non mi pagano abbastanza per resuscitarti. E poi, ti spetta una telefonata alla settimana nellâatrio principale.»
Una telefonata⊠alla settimana? MaâŠ
GuardĂČ il cellulare unâultima volta e si accorse che le erano arrivati due messaggi. Sembrava impossibile che sarebbero stati gli ultimi. Il primo era di Callie.
Chiama subito! Ti aspetto vicino al tel tutta la notte quindi preparati a vuotare il sacco. E ricorda il mantra che ti ho dato: Ce la farai! Cmq, per quello che importa, mi sa che tutti si sono dimenticatiâŠ
Tipico di Callie: il messaggio era cosĂŹ lungo che quello schifo di telefono aveva tagliato le ultime righe. In un certo senso, Luce ne fu quasi sollevata. Non voleva leggere che tutti alla sua vecchia scuola avevano giĂ dimenticato ciĂČ che le era successo, ciĂČ che aveva fatto per approdare in quel posto.
SospirĂČ e passĂČ al secondo sms. Era di sua madre, che aveva la mania dei messaggi solo da poche settimane, e di sicuro non era al corrente della telefonata settimanale, o non avrebbe mai abbandonato sua figlia lĂŹ. Giusto?
Cara, ti pensiamo sempre. Fai la brava e cerca di mangiare abbastanza proteine. Parleremo appena possibile.
Baci, mamma e papĂ
Luce sospirĂČ. I suoi genitori lo sapevano. Come spiegare altrimenti le loro facce tese quando li aveva salutati fuori da scuola quella mattina, sacca da viaggio in mano? A colazione, aveva cercato di scherzare sul fatto che avrebbe finalmente perso quel tremendo accento del New England che aveva preso alla Dover, ma i suoi non le avevano rivolto nemmeno lâaccenno di un sorriso. Luce aveva pensato che fossero ancora arrabbiati. Non strillavano mai, e quando lei perdeva il controllo si limitavano a rispondere con un muro di silenzio. Ora capiva la ragione del loro comportamento: i suoi stavano giĂ soffrendo della perdita di contatti con la loro unica figlia.
«Manca ancora qualcunoâŠÂ» cantilenĂČ la custode. «ChissĂ chi Ăš.» Luce riportĂČ di scatto lâattenzione sulla scatola, ora piena fino allâorlo di oggetti che non riusciva nemmeno a riconoscere. Sentiva su di sĂ© gli occhi verdi del ragazzo dai capelli scuri, ma poi si accorse che la stavano fissando tutti. Toccava a lei. Chiuse gli occhi e aprĂŹ lentamente la mano: il cellulare cadde sul mucchio con un tonfo triste. Il rumore della solitudine.
Todd e la bambola di plastica Gabbe si avviarono verso la porta riservando a Luce appena unâocchiata, ma il terzo ragazzo si voltĂČ verso la custode.
«Posso informarla io» disse, indicando Luce con un cenno.
«Non fa parte degli accordi» rispose automaticamente la donna, come se si fosse aspettata quello scambio di battute. «Sei uno nuovo, adesso: vuol dire che hai le stesse restrizioni dei nuovi. Sei tornato al via. Se non ti piace, avresti dovuto pensarci due volte prima di infrangere la tua promessa.»
Il ragazzo rimase immobile, inespressivo, mentre la custode spingeva Luce â che si era irrigidita alla parola âpromessaâ â verso un atrio ingiallito.
«Muoversi» aggiunse, come se nulla fosse. «Letti.» IndicĂČ la finestra esposta a ovest di un edificio color cenere. Gabbe e Todd iniziarono a camminare strascicando i piedi in quella direzione, e il terzo ragazzo li seguĂŹ lentamente, come se raggiungerli fosse lâultima delle cose che aveva in programma di fare.
Il dormitorio degli studenti era un edificio grigio imponente e squadrato, con porte massicce che non lasciavano trapelare allâesterno alcun segno di vita. Câera una grande targa di pietra in mezzo al prato: Luce lâaveva vista sul sito web della scuola, e ricordava che sopra câera scritto PAULINE DORMITORY. Al pallido sole del mattino sembrava perfino piĂč brutta di quanto lo fosse nella piatta fotografia in bianco e nero.
La facciata era coperta di muffa nera, visibile perfino da quella distanza. Tutte le finestre erano chiuse da file di spesse sbarre dâacciaio. Luce strizzĂČ gli occhi. Era filo spinato quello in cima al recinto che circondava lâedificio?
La custode consultĂČ una tabella, sfogliando la pratica di Luce. «Stanza 63. Metti la borsa nel mio ufficio insieme a quelle degli altri, per ora. Potrai disfarla nel pomeriggio.»
Luce trascinĂČ la sacca da viaggio rossa verso tre anonimi bauli neri, poi dâistinto cercĂČ il telefono dove in genere si appuntava le cose da ricordare. Ma dopo aver frugato nella tasca vuota, sospirĂČ e cercĂČ di imparare a memoria il numero della stanza.
Continuava a non capire perchĂ© non potesse semplicemente stare dai suoi; la casa di Thunderbolt era a meno di mezzâora dalla Sword & Cross. Era stato cosĂŹ bello tornare a Savannah, dove, come diceva sempre sua madre, perfino il vento soffiava pigro. I ritmi dolci e lenti della Georgia le erano molto piĂč congeniali del New England.
La Sword & Cross non somigliava affatto a Savannah, perĂČ. Non somigliava a niente, tranne che a un posto senza vita e senza colore dove era stata mandata per decisione del tribunale. Aveva ascoltato di nascosto suo padre parlare al telefono con il preside, annuendo in quel suo modo svanito da professore di biologia, per poi dire: âSĂŹ, sĂŹ, forse la cosa migliore per lei Ăš essere costantemente sorvegliata. No, no, non intendiamo interferire con il vostro metodo.â
Era chiaro che suo padre non sapeva come sarebbe stata sorvegliata la sua unica figlia. Quel posto sembrava un carcere di massima sicurezza.
«E cosa diceva di quelle⊠come le ha chiamate? Spie?» chiese Luce alla custode, già pronta a concludere il giro.
«Spie» ripetĂ© lâaltra, indicando con un cenno un piccolo dispositivo appeso al soffitto: un obbiettivo con una lucina rossa intermittente. Allâinizio Luce non lâaveva notato, ma non appena lo vide, si accorse che ce nâerano ovunque.
«Telecamere?»
«Molto brava» rispose la custode, con la voce piena di condiscendenza. «Ve le segnaliamo per avvertirvi. Vi tengono dâocchio sempre, dappertutto. Quindi non andare fuori di testa⊠se ci riesci.»
Ogni volta che qualcuno le parlava come se fosse una psicopatica, Luce si convinceva sempre un poâ di piĂč di esserlo davvero.
I ricordi lâavevano tormentata per tutta lâestate, in sogno e nei rari momenti in cui i suoi genitori la lasciavano sola. Era successo qualcosa in quel bungalow, e tutti (lei compresa) morivano dalla voglia di sapere che cosa. La polizia, il giudice, lâassistente sociale⊠tutti avevano cercato di cavarle fuori la veritĂ , ma Luce ne sapeva quanto loro. Lei e Trevor si erano divertiti per tutta la sera, inseguendosi fino alla fila di casette in riva al lago, lontani dagli altri invitati alla festa. Luce aveva cercato di spiegare che era stata una delle piĂč belle serate della sua vita, finchĂ© non si era trasformata nella peggiore.
Aveva rivissuto quella serata ancora e ancora â la risata di Trevor nelle orecchie, le sue mani che le cingevano la vita â cercando di conciliare i ricordi con il fatto che il suo istinto le diceva di essere innocente.
Ma ora, tutte le regole della Sword & Cross parevano andare contro quella convinzione, sembravano suggerire che lei era davvero pericolosa e che aveva davvero bisogno di essere tenuta sotto controllo.
Luce sentĂŹ una stretta salda sulla spalla.
«Ascolta» disse la custode. «Se puĂČ farti sentire meglio, ci sono casi ben peggiori, qui.»
Era il primo gesto di umanitĂ che mostrava nei suoi confronti, e Luce era certa che fosse dettato da buone intenzioni. Ma⊠lâavevano mandata laggiĂč a causa della morte sospetta del ragazzo di cui era innamorata e comunque câerano âcasi ben peggioriâ? Luce si chiese con che cosa avessero a che fare di preciso alla Sword & Cross.
«Okay, fine dellâorientamento» disse la custode. «Ora devi cavartela da sola. Ecco una mappa per trovare qualunque cosa ti serva.» Le consegnĂČ la fotocopia di una rozza cartina disegnata a mano, poi diede unâocchiata allâorologio. «Manca ancora unâora alla tua prima lezione, ma ho giĂ abbastanza gatte da pelare, quindi» agitĂČ la mano «sparisci. E non dimenticare» aggiunse, indicando le telecamere unâultima volta, «le spie ti tengono dâocchio.»
Prima che Luce potesse ribattere, comparve una ragazza magra e bruna, che le agitĂČ le lunghe dita davanti al viso.
«Ooooooh» cantilenĂČ cupa, danzando in cerchio intorno a Luce. «Le spie ti tengono dâooooocchio!»
«Vattene, Arriane, o ti faccio lobotomizzare» replicĂČ la custode, lasciandosi perĂČ sfuggire un sorriso fugace ma sincero, dal quale si capiva che per quella ragazza nutriva una sorta di ruvido affetto.
E si capiva anche che A...