Fallen (versione italiana)
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Fallen (versione italiana)

Lauren Kate

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Fallen (versione italiana)

Lauren Kate

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Informazioni sul libro

QUESTA EDIZIONE INCLUDE NUMEROSE FOTO DI SCENA TRATTE DAL FILM "FALLEN". Basta un istante per sconvolgere un'esistenza. A cambiare quella di Lucinda, diciassette anni, è stato l'incidente in cui è morto un suo caro amico. E lei ha visto addensarsi di nuovo le ombre scure che la perseguitano da quando è bambina. Guardata con sospetto dalla polizia e da chi la ritiene responsabile della morte dell'amico, Luce - così la chiamano tutti - è costretta a entrare in un istituto correzionale. Nessun contatto con il mondo esterno, telecamere di sorveglianza, ragazzi e ragazze dal passato oscuro e disturbato sono tutto ciò che trova alla scuola Sword & Cross. E poi appare Daniel, e Luce d'un tratto non sa più cosa è vero e cosa non lo è: il cuore le dice di averlo già incontrato, ma nella sua mente si accendono solo rari lampi di ricordi troppo brevi per essere veri. Soltanto quando rischia di perderla, Daniel decide di uscire allo scoperto: i loro cuori si conoscono da sempre, da tutte le vite che Luce non ricorda ancora di aver vissuto.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858687758

UNO

Ornamento di separazione

PERFETTI SCONOSCIUTI

Luce irruppe nell’atrio illuminato al neon della Sword & Cross School dieci minuti più tardi del dovuto. Un custode dall’ampio torace, guance rosse e un blocco per appunti stretto sotto un bicipite di ferro stava impartendo ordini, quindi Luce era già rimasta indietro.
«Allora ricordate: pillole, letti e spie» abbaiò il custode a tre studenti di cui Luce non riusciva a vedere il viso, perché le davano le spalle. «Ricordatevi le regole di base, e nessuno si farà male.»
Luce si infilò rapida nel gruppetto. Stava ancora cercando di capire se aveva compilato nel modo giusto la gigantesca pila di documenti, se quella guida dalla testa rasata era un uomo o una donna, se qualcuno poteva aiutarla a portare l’enorme sacca da viaggio, se i suoi genitori, dopo averla mollata lì, si sarebbero disfatti della sua amata Plymouth Fury non appena tornati a casa. Avevano minacciato di vendere la macchina per tutta l’estate, e ora avevano un motivo che nemmeno Luce poteva contestare: nella nuova scuola nessuno poteva tenere un’auto. Nel nuovo istituto correzionale, per l’esattezza.
Doveva ancora abituarsi a quella formula.
«Potrebbe, ehm, potrebbe ripetere?» domandò al custode. «Cos’era, pillole…?»
«Guarda un po’ cosa ci porta il vento» ribatté la guida a voce alta. Poi proseguì, scandendo piano: «Pillole. Se sei uno studente in terapia, qui è dove venire a prendere quello che ti serve per drogarti, restare sano di mente, respirare o quant’altro.»
Donna, si disse Luce, studiandola. Nessun uomo sarebbe stato tanto malizioso da usare un tono così dolciastro.
«Capito.» A Luce venne la nausea. «Pillole.»
Non era più sotto farmaci da anni. Dopo l’incidente di quell’estate il dottor Sanford – il suo analista a Hopkinton, nonché il motivo per cui i suoi genitori l’avevano spedita a scuola nel New Hampshire – aveva preso in considerazione se sottoporla di nuovo alla terapia farmacologica. Nonostante alla fine lei l’avesse convinto di essere quasi stabile, c’era voluto un mese in più di analisi per liberarsi di quegli orrendi psicofarmaci.
Ed ecco perché si era iscritta alla Sword & Cross con un mese di ritardo rispetto all’inizio dell’anno accademico. Essere quella nuova era già abbastanza brutto, ma questa volta c’era stata anche l’ansia di piombare nel bel mezzo di corsi in cui tutti gli altri si erano già ambientati. A giudicare dalla visita guidata della scuola, però, Luce non doveva essere l’unica appena arrivata.
Scoccò un’occhiata furtiva agli altri tre, in semicerchio attorno a lei. Nell’ultima scuola, Dover Prep, aveva conosciuto così la sua migliore amica, Callie. Tutti gli altri studenti in pratica erano cresciuti insieme, e a loro era bastato essere le uniche a non avere genitori o fratelli che avessero studiato lì. Ma poco dopo avevano scoperto di condividere la stessa passione per gli stessi vecchi film, soprattutto quelli con Albert Finney. Quando poi, sempre durante il primo anno (mentre guardavano Due per la strada), avevano scoperto che nessuna delle due riusciva a preparare i popcorn senza far scattare l’allarme antincendio, Callie e Luce erano diventate inseparabili. Finché… finché non erano state costrette a dividersi.
Accanto a Luce quel giorno c’erano due ragazzi e una ragazza. La ragazza sembrava facile da inquadrare: bionda e carina come in una pubblicità della Neutrogena, con unghie rosa pastello in tinta con la cartellina di plastica.
«Mi chiamo Gabbe» disse strascicando le parole, abbagliandola con un gran sorriso che svanì con la stessa rapidità con cui era apparso, prima ancora che Luce potesse presentarsi. Più che la ragazza tipo che si aspettava di trovare alla Sword & Cross, quell’interesse passeggero le sembrò una versione del Sud delle ragazze di Dover. Luce non sapeva dire se fosse consolante o no, e nemmeno riuscì a immaginare che cosa ci facesse in un correzionale una ragazza del genere.
Alla destra di Luce c’era un ragazzo con i capelli corti castani, occhi castani e una spruzzata di lentiggini sul naso. Dal modo in cui evitava di guardarla, limitandosi a tormentarsi una pellicina del pollice, Luce capì che probabilmente era stordito e imbarazzato quanto lei.
Il ragazzo alla sua sinistra, invece, combaciava fin troppo bene con l’idea che Luce si era fatta di quel posto. Era alto e magro, con una borsa da DJ appesa alla spalla, capelli neri arruffati e occhi verdi, grandi e profondi. Aveva le labbra piene, di un rosa per cui molte ragazze avrebbero dato qualsiasi cosa. Dal bordo della maglietta nera, sulla nuca, spuntava il tatuaggio di un sole che sulla pelle chiara pareva quasi risplendere.
A differenza degli altri due, quando si voltò a guardarla, il ragazzo non distolse gli occhi. Il sorriso era forzato, ma lo sguardo era caldo e vivace. La fissò, immobile come una statua, e anche Luce si sentì inchiodata al suolo. Trattenne il respiro. Quegli occhi erano intensi, seducenti e be’, disarmanti.
Schiarendosi rumorosamente la gola, la custode strappò il ragazzo al suo sguardo trasognato. Luce arrossì e finse di essere molto occupata a grattarsi la testa.
«Quelli di voi che sanno già tutto sono liberi di andare dopo aver buttato via gli oggetti vietati.» La custode indicò una grossa scatola di cartone sotto un cartello che diceva a grandi lettere nere OGGETTI PROIBITI. «E quando dico liberi, Todd» calò una mano sulla spalla del ragazzo con le lentiggini, facendolo sussultare «intendo obbligati a incontrare le vostre guide.» Puntò il dito contro Luce. «Tu, via la roba vietata e rimani con me.»
I quattro si avvicinarono alla scatola e Luce vide, sconcertata, che i ragazzi cominciavano a svuotarsi le tasche. La ragazza estrasse un coltellino svizzero rosa da dieci centimetri. Il tipo dagli occhi verdi si separò con una certa riluttanza da una bomboletta di vernice spray e un taglierino. Perfino il povero Todd lasciò cadere nello scatolone parecchie confezioni di fiammiferi e una piccola bomboletta di gas per accendini. Luce si sentì quasi stupida a non avere niente di pericoloso con sé, ma quando vide gli altri frugare nelle tasche e buttare i cellulari nella scatola, rimase a bocca aperta.
Chinandosi in avanti per leggere più da vicino la scritta OGGETTI PROIBITI, notò che cellulari, cercapersone e ogni altro apparecchio di trasmissione e ricezione erano severamente proibiti. Come se non fosse già abbastanza brutto non avere un’auto! Luce strinse con la mano sudata il telefono che teneva in tasca, il suo unico collegamento con il mondo esterno. La custode colse il suo sguardo, e la schiaffeggiò leggermente sulla guancia. «Non svenirmi addosso, piccola, non mi pagano abbastanza per resuscitarti. E poi, ti spetta una telefonata alla settimana nell’atrio principale.»
Una telefonata… alla settimana? Ma…
Guardò il cellulare un’ultima volta e si accorse che le erano arrivati due messaggi. Sembrava impossibile che sarebbero stati gli ultimi. Il primo era di Callie.
Chiama subito! Ti aspetto vicino al tel tutta la notte quindi preparati a vuotare il sacco. E ricorda il mantra che ti ho dato: Ce la farai! Cmq, per quello che importa, mi sa che tutti si sono dimenticati…
Tipico di Callie: il messaggio era così lungo che quello schifo di telefono aveva tagliato le ultime righe. In un certo senso, Luce ne fu quasi sollevata. Non voleva leggere che tutti alla sua vecchia scuola avevano già dimenticato ciò che le era successo, ciò che aveva fatto per approdare in quel posto.
Sospirò e passò al secondo sms. Era di sua madre, che aveva la mania dei messaggi solo da poche settimane, e di sicuro non era al corrente della telefonata settimanale, o non avrebbe mai abbandonato sua figlia lì. Giusto?
Cara, ti pensiamo sempre. Fai la brava e cerca di mangiare abbastanza proteine. Parleremo appena possibile.
Baci, mamma e papà
Luce sospirò. I suoi genitori lo sapevano. Come spiegare altrimenti le loro facce tese quando li aveva salutati fuori da scuola quella mattina, sacca da viaggio in mano? A colazione, aveva cercato di scherzare sul fatto che avrebbe finalmente perso quel tremendo accento del New England che aveva preso alla Dover, ma i suoi non le avevano rivolto nemmeno l’accenno di un sorriso. Luce aveva pensato che fossero ancora arrabbiati. Non strillavano mai, e quando lei perdeva il controllo si limitavano a rispondere con un muro di silenzio. Ora capiva la ragione del loro comportamento: i suoi stavano già soffrendo della perdita di contatti con la loro unica figlia.
«Manca ancora qualcuno…» cantilenò la custode. «Chissà chi è.» Luce riportò di scatto l’attenzione sulla scatola, ora piena fino all’orlo di oggetti che non riusciva nemmeno a riconoscere. Sentiva su di sé gli occhi verdi del ragazzo dai capelli scuri, ma poi si accorse che la stavano fissando tutti. Toccava a lei. Chiuse gli occhi e aprì lentamente la mano: il cellulare cadde sul mucchio con un tonfo triste. Il rumore della solitudine.
Todd e la bambola di plastica Gabbe si avviarono verso la porta riservando a Luce appena un’occhiata, ma il terzo ragazzo si voltò verso la custode.
«Posso informarla io» disse, indicando Luce con un cenno.
«Non fa parte degli accordi» rispose automaticamente la donna, come se si fosse aspettata quello scambio di battute. «Sei uno nuovo, adesso: vuol dire che hai le stesse restrizioni dei nuovi. Sei tornato al via. Se non ti piace, avresti dovuto pensarci due volte prima di infrangere la tua promessa.»
Il ragazzo rimase immobile, inespressivo, mentre la custode spingeva Luce – che si era irrigidita alla parola “promessa” – verso un atrio ingiallito.
«Muoversi» aggiunse, come se nulla fosse. «Letti.» Indicò la finestra esposta a ovest di un edificio color cenere. Gabbe e Todd iniziarono a camminare strascicando i piedi in quella direzione, e il terzo ragazzo li seguì lentamente, come se raggiungerli fosse l’ultima delle cose che aveva in programma di fare.
Il dormitorio degli studenti era un edificio grigio imponente e squadrato, con porte massicce che non lasciavano trapelare all’esterno alcun segno di vita. C’era una grande targa di pietra in mezzo al prato: Luce l’aveva vista sul sito web della scuola, e ricordava che sopra c’era scritto PAULINE DORMITORY. Al pallido sole del mattino sembrava perfino più brutta di quanto lo fosse nella piatta fotografia in bianco e nero.
La facciata era coperta di muffa nera, visibile perfino da quella distanza. Tutte le finestre erano chiuse da file di spesse sbarre d’acciaio. Luce strizzò gli occhi. Era filo spinato quello in cima al recinto che circondava l’edificio?
La custode consultò una tabella, sfogliando la pratica di Luce. «Stanza 63. Metti la borsa nel mio ufficio insieme a quelle degli altri, per ora. Potrai disfarla nel pomeriggio.»
Luce trascinò la sacca da viaggio rossa verso tre anonimi bauli neri, poi d’istinto cercò il telefono dove in genere si appuntava le cose da ricordare. Ma dopo aver frugato nella tasca vuota, sospirò e cercò di imparare a memoria il numero della stanza.
Continuava a non capire perché non potesse semplicemente stare dai suoi; la casa di Thunderbolt era a meno di mezz’ora dalla Sword & Cross. Era stato così bello tornare a Savannah, dove, come diceva sempre sua madre, perfino il vento soffiava pigro. I ritmi dolci e lenti della Georgia le erano molto più congeniali del New England.
La Sword & Cross non somigliava affatto a Savannah, però. Non somigliava a niente, tranne che a un posto senza vita e senza colore dove era stata mandata per decisione del tribunale. Aveva ascoltato di nascosto suo padre parlare al telefono con il preside, annuendo in quel suo modo svanito da professore di biologia, per poi dire: “Sì, sì, forse la cosa migliore per lei è essere costantemente sorvegliata. No, no, non intendiamo interferire con il vostro metodo.”
Era chiaro che suo padre non sapeva come sarebbe stata sorvegliata la sua unica figlia. Quel posto sembrava un carcere di massima sicurezza.
«E cosa diceva di quelle… come le ha chiamate? Spie?» chiese Luce alla custode, già pronta a concludere il giro.
«Spie» ripeté l’altra, indicando con un cenno un piccolo dispositivo appeso al soffitto: un obbiettivo con una lucina rossa intermittente. All’inizio Luce non l’aveva notato, ma non appena lo vide, si accorse che ce n’erano ovunque.
«Telecamere?»
«Molto brava» rispose la custode, con la voce piena di condiscendenza. «Ve le segnaliamo per avvertirvi. Vi tengono d’occhio sempre, dappertutto. Quindi non andare fuori di testa… se ci riesci.»
Ogni volta che qualcuno le parlava come se fosse una psicopatica, Luce si convinceva sempre un po’ di più di esserlo davvero.
I ricordi l’avevano tormentata per tutta l’estate, in sogno e nei rari momenti in cui i suoi genitori la lasciavano sola. Era successo qualcosa in quel bungalow, e tutti (lei compresa) morivano dalla voglia di sapere che cosa. La polizia, il giudice, l’assistente sociale… tutti avevano cercato di cavarle fuori la verità, ma Luce ne sapeva quanto loro. Lei e Trevor si erano divertiti per tutta la sera, inseguendosi fino alla fila di casette in riva al lago, lontani dagli altri invitati alla festa. Luce aveva cercato di spiegare che era stata una delle più belle serate della sua vita, finché non si era trasformata nella peggiore.
Aveva rivissuto quella serata ancora e ancora – la risata di Trevor nelle orecchie, le sue mani che le cingevano la vita – cercando di conciliare i ricordi con il fatto che il suo istinto le diceva di essere innocente.
Ma ora, tutte le regole della Sword & Cross parevano andare contro quella convinzione, sembravano suggerire che lei era davvero pericolosa e che aveva davvero bisogno di essere tenuta sotto controllo.
Luce sentì una stretta salda sulla spalla.
«Ascolta» disse la custode. «Se può farti sentire meglio, ci sono casi ben peggiori, qui.»
Era il primo gesto di umanità che mostrava nei suoi confronti, e Luce era certa che fosse dettato da buone intenzioni. Ma… l’avevano mandata laggiù a causa della morte sospetta del ragazzo di cui era innamorata e comunque c’erano “casi ben peggiori”? Luce si chiese con che cosa avessero a che fare di preciso alla Sword & Cross.
«Okay, fine dell’orientamento» disse la custode. «Ora devi cavartela da sola. Ecco una mappa per trovare qualunque cosa ti serva.» Le consegnò la fotocopia di una rozza cartina disegnata a mano, poi diede un’occhiata all’orologio. «Manca ancora un’ora alla tua prima lezione, ma ho già abbastanza gatte da pelare, quindi» agitò la mano «sparisci. E non dimenticare» aggiunse, indicando le telecamere un’ultima volta, «le spie ti tengono d’occhio.»
Prima che Luce potesse ribattere, comparve una ragazza magra e bruna, che le agitò le lunghe dita davanti al viso.
«Ooooooh» cantilenò cupa, danzando in cerchio intorno a Luce. «Le spie ti tengono d’ooooocchio!»
«Vattene, Arriane, o ti faccio lobotomizzare» replicò la custode, lasciandosi però sfuggire un sorriso fugace ma sincero, dal quale si capiva che per quella ragazza nutriva una sorta di ruvido affetto.
E si capiva anche che A...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IN PRINCIPIO
  4. UNO
  5. DUE
  6. TRE
  7. QUATTRO
  8. CINQUE
  9. SEI
  10. SETTE
  11. OTTO
  12. NOVE
  13. DIECI
  14. UNDICI
  15. DODICI
  16. TREDICI
  17. QUATTORDICI
  18. QUINDICI
  19. SEDICI
  20. DICIASSETTE
  21. DICIOTTO
  22. DICIANNOVE
  23. VENTI
  24. EPILOGO
  25. RINGRAZIAMENTI
  26. CONTENUTI SPECIALI
Stili delle citazioni per Fallen (versione italiana)

APA 6 Citation

Kate, L. (2017). Fallen (versione italiana) ([edition unavailable]). RIZZOLI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3303950 (Original work published 2017)

Chicago Citation

Kate, Lauren. (2017) 2017. Fallen (Versione Italiana). [Edition unavailable]. RIZZOLI. https://www.perlego.com/book/3303950.

Harvard Citation

Kate, L. (2017) Fallen (versione italiana). [edition unavailable]. RIZZOLI. Available at: https://www.perlego.com/book/3303950 (Accessed: 25 June 2024).

MLA 7 Citation

Kate, Lauren. Fallen (Versione Italiana). [edition unavailable]. RIZZOLI, 2017. Web. 25 June 2024.