Rue de la Tombe Issoire, 1961. ChissĂ se sia nato prima il topo (senza scopo) o la zanzara (di ZanzibĂ r) o il gatto (quatto quatto). Ă comunque iniziato tutto da lĂ, per caso e per gioco. O forse lĂ, quellâanno a Parigi, qualcosa si Ăš compiuto: la risposta, non casuale, a un richiamo creativo sonnecchiante per anni, che avrebbe avviato Toti Scialoja per unâavventura poetica unica e rivoluzionaria nella storia della letteratura del Novecento italiano, rendendolo poeta a sessantâanni e suo malgrado, quando giĂ era un maestro dellâarte astratta, celebre sulle due sponde dellâAtlantico.
Una storia che sorprende, per come si Ăš svolta (con la naturalezza dâuna quasi predestinazione e una costellazione di leggende), e per la bizzarra accoglienza che ai suoi delicatissimi congegni di illusionismo verbale ha riservato la critica, subito divisa nelle due schiere dei «sospettosi» e degli entusiasti. Se la divulgazione ne risultĂČ penalizzata, lo si deve ai primi, mossi entro la domanda (retorica) se quel pittore, divenuto giocoliere di puri suoni, fosse un poeta «serio» o soltanto giocoso, appunto, se fosse anche per adulti o solo per bambini e, anzi, se fosse davvero un poeta, con tutti i crismi. Pregiudizi, che bene ha chiarito Giovanni Raboni nella Prefazione al volume in cui ha raccolto le poesie della cosiddetta linea «seria», verso la quale esortava lâautore1: il pregiudizio che i suoi versi, tutti e non solo quelli dichiaratamente per lâinfanzia, appartenessero alla «ghettizzante categoria della produzione âscherzosaâ o âgiocosaâ. Categoria che la seriositĂ accademica [...] tende a considerare quasi fatalmente âminoreâ»; e il sospetto dâuna sua «violinitĂ dâIngres», avendo Toti esordito editorialmente quando era «uno dei piĂș importanti pittori della sua generazione». Il timore insomma dâuna poesia scritta solo per divertimento, tenace anche dopo la «svolta» provocata da quella sensuale musa ironico-lirica che, dagli anni Ottanta, ispirĂČ a Scialoja versi piĂș intimisti e tragici.
A togliere lâombra lunga dellâarte minore dagli «incantesimi sonori» di Scialoja si fece largo lâaltra «cerchia», di illuminati (fra cui Calvino, Porta, Raboni e Manganelli), dapprima ristretta e poi via via piĂș folta fino a formare un gruppo di epigoni, o nel caso migliore di «compagni di strada â osservava Barilli â costituito da tanti giovani poeti che insistono, chi piĂș chi meno, in un simile âviaggio al termine della parolaâ»2.
Sembra aver trovato cosĂ un lieto fine lâavventura di Scialoja poeta, misconosciuto in gioventĂș, quandâera appassionato e adolescente lettore di Ungaretti, e riconosciuto in tarda etĂ , anche con alcuni premi letterari3. PiĂș che a una fine, tuttavia, viene quasi da pensare al ritorno di un inizio, un tratto inciso nel Dna di Scialoja, pittore che sulla tela stesa a terra era volto a far durare, ripetere, rinnovare lâattimo originario del gesto, e poeta che continua a conquistarsi caparbio lo spazio e il ruolo che merita nella poesia contemporanea, entrando nelle antologie, nei manuali (come gli augurava Raboni), nello stratificarsi e complicarsi delle letture e delle riletture. E ora questi Versi del senso perso riattualizzano la godibilitĂ delle sue felici orchestrazioni sonore, e tornano finalmente a liberare dalla soggezione al linguaggio bambini e adulti.
Un artista «fuori strada».
CâĂš un altro tratto «genetico» di Scialoja che ha giocato la sua parte nel rapporto con la critica. Oltre i pregiudizi. Ă la sua estraneitĂ , anzi la sua insofferenza alle mode. Essere sempre fuori dai cori significava per Toti essere libero di esprimere tutto se stesso, la sua intera umanitĂ . Una finalitĂ profondamente etica dellâarte, di cui ha difeso lâautonomia con fierezza anceschiana, che ha procurato al pittore grandi soddisfazioni a fronte di amare battaglie e solitudini. Anche il suo mito americano degli anni Cinquanta era un mito di libertĂ , crollato giĂ nel 1960, durante il secondo viaggio a New York, quando si avvide che tutto, persino lâaction painting, era diventato una moda. «Sono sempre stato in fondo fuori tempo â disse in unâintervista4 â perchĂ© quando tutti diventavano astratti, io ero ancora figurativo, quando poi divenni astratto io, le cose erano giĂ cambiate». E infatti stava tornando il figurativo, con la pop art, la sua «bestia nera». Dunque, come il pittore inseguiva un «suo» sogno di pittura ispirato allâespressionismo europeo5 di Van Gogh, Ensor e Soutine, ma poi rielaborava ogni fermento come specchio di se stesso, anche quel poeta di squisita leggerezza che Ăš stato attingeva da un orizzonte europeo e da modelli che negli anni Sessanta non facevano granchĂ© furore in Italia: si pensi allâuso della metrica, e per giunta della rima, e alla stessa poesia per lâinfanzia. Scialoja ripescava gli echi di antiche letture di bambino, fra cui Il ciuco di Melasecche del Fucini, gli ottonari del «Corriere dei Piccoli» con le rime di Fortunello e le immagini di Capitan CocoricĂČ, i «versetti astratti, assurdi, gelidi e allegri», come li definĂ, delle poesie inglesi: Lewis Carroll e Edward Lear letti sullâEnciclopedia dei Ragazzi. Eppure i suoi nonsense sono diversi da quelli di Lear: la loro anima non Ăš la demenzialitĂ tipica dello humour inglese che svapora nella freddura del nonsenso. Nei piĂș mediterranei versetti scialojani la perdita di senso, o del «peso specifico» delle parole, dura quanto lo choc provocato da un raptus di sillabe impazzite. Poi, dal vuoto si ricompone dâimprovviso un senso ritrovato, anzi moltiplicato, che sboccia dallo stupore silenzioso e fa scattare il riso, liberatorio.
Su questo meccanismo sono stati scritti fiumi di inchiostro. Scialoja per primo, nelle interviste e nei saggi autoermeneutici6, spiegava che era la poesia a scegliere lui, e non il contrario. Il poeta veniva circuito, calamitato e sedotto da una parola zanzaresca, che si spaccava, con una consistenza materica, per scoprire il «risvolto di se stessa» e lasciar sbriciolare le sillabe come un polline che per contagio moltiplichi la «voglia di poesia», la voglia di altre parole che prolunghino il «primo incantamento», di altri suoni che si assumano «lâenigma dolente». In quei saggi era abile a confondere le carte descrivendo il proprio metodo compositivo, inconscio e automatico ma cosciente, riversandovi una personalitĂ creativa irriducibile, non etichettabile, nemmeno con il cartellino della neoavanguardia seppure i suoi esordi poetici siano legati ai nomi dei Novissimi, per il cui teatro aveva realizzato scene e costumi, oltre che la regia. Ragion per cui risultava sfuggente ai contemporanei, come fosse, il suo, un passo accelerato, o rallentato.
Il mezzo magico che trasporta in un «altro» regno.
Dunque iniziĂČ per caso e per gioco. Suo malgrado. Era il 1961. Scialoja si trovava a Parigi, in cerca del filo rosso dellâarte contemporanea smarrito nel baratro delle mode. Aveva vissuto piĂș di una vita artistica, e aveva piĂș di unâanima. Era anche scenografo e scrittore. Come pittore aveva avuto la sua stagione dâoro sul finire degli anni Cinquanta con le Impronte scoperte a Procida, «sindone» dellâuomo che stampa la forma del qui e ora sulla superficie della tela con la stessa matrice intrisa di colore. Quella tela-coscienza husserliana aveva presto preso atto del gesto apotropaico contro la fuga del tempo, rappresentato dallo stampaggio che scolorava procedendo verso destra. Icone della ripetizione come possibilitĂ , kierkegaardiana, proprio nel 1961 le dedicava alla morte di Merleau-Ponty, del quale aveva seguito le lezioni alla Sorbona.
Come poeta era una potenzialitĂ vivente. Nel 1952 aveva pubblicato I segni della corda, sensuali, visionari poemetti in prosa, passati quasi sotto silenzio, seppure recensiti, benevolmente, da Fortini e da Montale, che ne apprezzĂČ una controcorrente «impronta assai decadente», e con grande riserva da Pasolini, che li accusĂČ di astoricismo e di espressionismo, unâaccoppiata in cui il «poeta civile» vedeva addensarsi il colmo della «decadenza». Del resto erano gli anni in cui Scialoja si allontanava dal gruppo del realismo che gravitava intorno alla rivista «Nuovi Argomenti», anni di furenti rotture, con Pasolini, Guttuso, Brandi, mentre si liberava del «male tridimensionale» e maturava il passaggio allâastrattismo, scaturito dalla crisi figurativa del â48.
Anche il poeta in erba aveva subĂto un verdetto spietato, ricordato nelle interviste. Toti, che a otto anni faceva il pittore («alla Raffaello!») e a dieci giĂ scriveva strofette comico-grottesche con animali, sognava di diventare poeta. A ventâanni fece valutare i suoi versi crepuscolari a un innominato poeta da lui stimato, che rispose picche. Dovette perciĂČ ricollocare quella «sete struggente di assoluto» che gli veniva dallâinfanzia come «un sogno di non separazione». E la folgorazione fu lâincontro con la Scuola Romana: «la mia anima era direttamente confluita, era immigrata, tutta intera nella pittura» ricordĂČ piĂș tardi7. Da allora scrisse solo critica dâarte e prose fantastiche; prese invece a dipingere ogni giorno della sua vita, senza poterne fare a meno.
Non fu per caso che nel 1961, in volontario esilio parigino, Scialoja trovasse nelle parole, quelle schioccanti dellâitaliano, la «soluzione del male e del dolce di vivere». Ma fu per gioco che la parola divenne il mezzo magico che nelle fiabe trasporta lâeroe in un «altro» regno: zucca, specchio, cavallo, piuma e barca. Trasportava forse lâartista in quello spazio simbolico dellâarte («unica resistente promessa di felicità ») che egli non riusciva piĂș a trovare in una pittura europea divenuta «arte spettacolo». La poesia venne col suo fruscio e gli portĂČ teneri e bizzarri animaletti depositari di una saggezza zen che spediva per lettera, con deliziosi disegni a penna, al nipotino James Demby. CosĂ, il poeta cacciato dalla porta rientrĂČ per la finestra: «per una via traversa, quasi una porta di servizio â disse piĂș tardi â attraverso i nonsense, le allitterazioni, le mie filastrocche e le mie brevi poesie dedicate allâinfanzia»8. Anche lâinfanzia dentro di sĂ©.
Seguitando a crearle anche per le nipotine, Al...