Versi del senso perso
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Versi del senso perso

Toti Scialoja

  1. 304 pages
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Versi del senso perso

Toti Scialoja

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Nel 1989 Toti Scialoja raccolse sotto l'insegna del «senso perso» tutte le sue poesie, fino ad allora riservate a un pubblico di amici, bambini e intenditori: da «Topo, topo, | senza scopo, | dopo te cosa vien dopo?» sino a «La tristizia, il nevischio, il solstizio d'inverno | nel buio natalizio sono sempre di turno...» Partendo dalla strofa infantile si attraversa uno zoo di animali perplessi che si squamano in sillabe, si intrattengono con il gioco commerci non occasionali, si raggiunge la lirica dalla direzione piú inattesa. Si chiedeva Giorgio Manganelli: «Non sarà Scialoja un petrarchesco che si è bruscamente accorto di quante possibilità offra una meticolosa dementia praecox?»
Sono filastrocche filosofali: «Sento un topo | nello stipo. | Lo spalanco: | topo bianco!»; tiritere reiterate: «La mucca di Lucca | che gira in parrucca | in mezzo alla vigna | e allunga la lingua | ammicca o pilucca?»; invenzioni inveterate «Ieri vidi tre levrieri | mogi mogi, | oggi vedo tre levroggi | neri neri, | che domani sloggeranno | levri levri»; lapidi lepide e rapide: «Ahi, la vespa | com'è pesta! | Era vispa, | non fu lesta». Quello che oggi possiamo finalmente rileggere è l'inimitabile repertorio in cui Toti Scialoja ha collaudato l'esattezza del principio da lui stesso enunciato: «Nel nonsense la parola è alla prova del nulla».

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858414903
Subtopic
Poésie

Scialoja, la fortuna critica di un «ippogrifante»
di Orietta Bonifazi

Rue de la Tombe Issoire, 1961. Chissà se sia nato prima il topo (senza scopo) o la zanzara (di Zanzibàr) o il gatto (quatto quatto). È comunque iniziato tutto da lí, per caso e per gioco. O forse lí, quell’anno a Parigi, qualcosa si è compiuto: la risposta, non casuale, a un richiamo creativo sonnecchiante per anni, che avrebbe avviato Toti Scialoja per un’avventura poetica unica e rivoluzionaria nella storia della letteratura del Novecento italiano, rendendolo poeta a sessant’anni e suo malgrado, quando già era un maestro dell’arte astratta, celebre sulle due sponde dell’Atlantico.
Una storia che sorprende, per come si è svolta (con la naturalezza d’una quasi predestinazione e una costellazione di leggende), e per la bizzarra accoglienza che ai suoi delicatissimi congegni di illusionismo verbale ha riservato la critica, subito divisa nelle due schiere dei «sospettosi» e degli entusiasti. Se la divulgazione ne risultò penalizzata, lo si deve ai primi, mossi entro la domanda (retorica) se quel pittore, divenuto giocoliere di puri suoni, fosse un poeta «serio» o soltanto giocoso, appunto, se fosse anche per adulti o solo per bambini e, anzi, se fosse davvero un poeta, con tutti i crismi. Pregiudizi, che bene ha chiarito Giovanni Raboni nella Prefazione al volume in cui ha raccolto le poesie della cosiddetta linea «seria», verso la quale esortava l’autore1: il pregiudizio che i suoi versi, tutti e non solo quelli dichiaratamente per l’infanzia, appartenessero alla «ghettizzante categoria della produzione “scherzosa” o “giocosa”. Categoria che la seriosità accademica [...] tende a considerare quasi fatalmente “minore”»; e il sospetto d’una sua «violinità d’Ingres», avendo Toti esordito editorialmente quando era «uno dei piú importanti pittori della sua generazione». Il timore insomma d’una poesia scritta solo per divertimento, tenace anche dopo la «svolta» provocata da quella sensuale musa ironico-lirica che, dagli anni Ottanta, ispirò a Scialoja versi piú intimisti e tragici.
A togliere l’ombra lunga dell’arte minore dagli «incantesimi sonori» di Scialoja si fece largo l’altra «cerchia», di illuminati (fra cui Calvino, Porta, Raboni e Manganelli), dapprima ristretta e poi via via piú folta fino a formare un gruppo di epigoni, o nel caso migliore di «compagni di strada – osservava Barilli – costituito da tanti giovani poeti che insistono, chi piú chi meno, in un simile “viaggio al termine della parola”»2.
Sembra aver trovato cosí un lieto fine l’avventura di Scialoja poeta, misconosciuto in gioventú, quand’era appassionato e adolescente lettore di Ungaretti, e riconosciuto in tarda età, anche con alcuni premi letterari3. Piú che a una fine, tuttavia, viene quasi da pensare al ritorno di un inizio, un tratto inciso nel Dna di Scialoja, pittore che sulla tela stesa a terra era volto a far durare, ripetere, rinnovare l’attimo originario del gesto, e poeta che continua a conquistarsi caparbio lo spazio e il ruolo che merita nella poesia contemporanea, entrando nelle antologie, nei manuali (come gli augurava Raboni), nello stratificarsi e complicarsi delle letture e delle riletture. E ora questi Versi del senso perso riattualizzano la godibilità delle sue felici orchestrazioni sonore, e tornano finalmente a liberare dalla soggezione al linguaggio bambini e adulti.

Un artista «fuori strada».

C’è un altro tratto «genetico» di Scialoja che ha giocato la sua parte nel rapporto con la critica. Oltre i pregiudizi. È la sua estraneità, anzi la sua insofferenza alle mode. Essere sempre fuori dai cori significava per Toti essere libero di esprimere tutto se stesso, la sua intera umanità. Una finalità profondamente etica dell’arte, di cui ha difeso l’autonomia con fierezza anceschiana, che ha procurato al pittore grandi soddisfazioni a fronte di amare battaglie e solitudini. Anche il suo mito americano degli anni Cinquanta era un mito di libertà, crollato già nel 1960, durante il secondo viaggio a New York, quando si avvide che tutto, persino l’action painting, era diventato una moda. «Sono sempre stato in fondo fuori tempo – disse in un’intervista4 – perché quando tutti diventavano astratti, io ero ancora figurativo, quando poi divenni astratto io, le cose erano già cambiate». E infatti stava tornando il figurativo, con la pop art, la sua «bestia nera». Dunque, come il pittore inseguiva un «suo» sogno di pittura ispirato all’espressionismo europeo5 di Van Gogh, Ensor e Soutine, ma poi rielaborava ogni fermento come specchio di se stesso, anche quel poeta di squisita leggerezza che è stato attingeva da un orizzonte europeo e da modelli che negli anni Sessanta non facevano granché furore in Italia: si pensi all’uso della metrica, e per giunta della rima, e alla stessa poesia per l’infanzia. Scialoja ripescava gli echi di antiche letture di bambino, fra cui Il ciuco di Melasecche del Fucini, gli ottonari del «Corriere dei Piccoli» con le rime di Fortunello e le immagini di Capitan Cocoricò, i «versetti astratti, assurdi, gelidi e allegri», come li definí, delle poesie inglesi: Lewis Carroll e Edward Lear letti sull’Enciclopedia dei Ragazzi. Eppure i suoi nonsense sono diversi da quelli di Lear: la loro anima non è la demenzialità tipica dello humour inglese che svapora nella freddura del nonsenso. Nei piú mediterranei versetti scialojani la perdita di senso, o del «peso specifico» delle parole, dura quanto lo choc provocato da un raptus di sillabe impazzite. Poi, dal vuoto si ricompone d’improvviso un senso ritrovato, anzi moltiplicato, che sboccia dallo stupore silenzioso e fa scattare il riso, liberatorio.
Su questo meccanismo sono stati scritti fiumi di inchiostro. Scialoja per primo, nelle interviste e nei saggi autoermeneutici6, spiegava che era la poesia a scegliere lui, e non il contrario. Il poeta veniva circuito, calamitato e sedotto da una parola zanzaresca, che si spaccava, con una consistenza materica, per scoprire il «risvolto di se stessa» e lasciar sbriciolare le sillabe come un polline che per contagio moltiplichi la «voglia di poesia», la voglia di altre parole che prolunghino il «primo incantamento», di altri suoni che si assumano «l’enigma dolente». In quei saggi era abile a confondere le carte descrivendo il proprio metodo compositivo, inconscio e automatico ma cosciente, riversandovi una personalità creativa irriducibile, non etichettabile, nemmeno con il cartellino della neoavanguardia seppure i suoi esordi poetici siano legati ai nomi dei Novissimi, per il cui teatro aveva realizzato scene e costumi, oltre che la regia. Ragion per cui risultava sfuggente ai contemporanei, come fosse, il suo, un passo accelerato, o rallentato.

Il mezzo magico che trasporta in un «altro» regno.

Dunque iniziò per caso e per gioco. Suo malgrado. Era il 1961. Scialoja si trovava a Parigi, in cerca del filo rosso dell’arte contemporanea smarrito nel baratro delle mode. Aveva vissuto piú di una vita artistica, e aveva piú di un’anima. Era anche scenografo e scrittore. Come pittore aveva avuto la sua stagione d’oro sul finire degli anni Cinquanta con le Impronte scoperte a Procida, «sindone» dell’uomo che stampa la forma del qui e ora sulla superficie della tela con la stessa matrice intrisa di colore. Quella tela-coscienza husserliana aveva presto preso atto del gesto apotropaico contro la fuga del tempo, rappresentato dallo stampaggio che scolorava procedendo verso destra. Icone della ripetizione come possibilità, kierkegaardiana, proprio nel 1961 le dedicava alla morte di Merleau-Ponty, del quale aveva seguito le lezioni alla Sorbona.
Come poeta era una potenzialità vivente. Nel 1952 aveva pubblicato I segni della corda, sensuali, visionari poemetti in prosa, passati quasi sotto silenzio, seppure recensiti, benevolmente, da Fortini e da Montale, che ne apprezzò una controcorrente «impronta assai decadente», e con grande riserva da Pasolini, che li accusò di astoricismo e di espressionismo, un’accoppiata in cui il «poeta civile» vedeva addensarsi il colmo della «decadenza». Del resto erano gli anni in cui Scialoja si allontanava dal gruppo del realismo che gravitava intorno alla rivista «Nuovi Argomenti», anni di furenti rotture, con Pasolini, Guttuso, Brandi, mentre si liberava del «male tridimensionale» e maturava il passaggio all’astrattismo, scaturito dalla crisi figurativa del ’48.
Anche il poeta in erba aveva subíto un verdetto spietato, ricordato nelle interviste. Toti, che a otto anni faceva il pittore («alla Raffaello!») e a dieci già scriveva strofette comico-grottesche con animali, sognava di diventare poeta. A vent’anni fece valutare i suoi versi crepuscolari a un innominato poeta da lui stimato, che rispose picche. Dovette perciò ricollocare quella «sete struggente di assoluto» che gli veniva dall’infanzia come «un sogno di non separazione». E la folgorazione fu l’incontro con la Scuola Romana: «la mia anima era direttamente confluita, era immigrata, tutta intera nella pittura» ricordò piú tardi7. Da allora scrisse solo critica d’arte e prose fantastiche; prese invece a dipingere ogni giorno della sua vita, senza poterne fare a meno.
Non fu per caso che nel 1961, in volontario esilio parigino, Scialoja trovasse nelle parole, quelle schioccanti dell’italiano, la «soluzione del male e del dolce di vivere». Ma fu per gioco che la parola divenne il mezzo magico che nelle fiabe trasporta l’eroe in un «altro» regno: zucca, specchio, cavallo, piuma e barca. Trasportava forse l’artista in quello spazio simbolico dell’arte («unica resistente promessa di felicità») che egli non riusciva piú a trovare in una pittura europea divenuta «arte spettacolo». La poesia venne col suo fruscio e gli portò teneri e bizzarri animaletti depositari di una saggezza zen che spediva per lettera, con deliziosi disegni a penna, al nipotino James Demby. Cosí, il poeta cacciato dalla porta rientrò per la finestra: «per una via traversa, quasi una porta di servizio – disse piú tardi – attraverso i nonsense, le allitterazioni, le mie filastrocche e le mie brevi poesie dedicate all’infanzia»8. Anche l’infanzia dentro di sé.
Seguitando a crearle anche per le nipotine, Al...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Versi del senso perso
  3. Il piú crudele dei musi di Paolo Mauri
  4. Versi del senso perso
  5. Amato topino caro
  6. Una vespa! Che spavento
  7. I. La zanzara senza zeta
  8. II. Tigri pigre
  9. La stanza la stizza l’astuzia
  10. I. I corvi di Orvieto
  11. II. Pane coltello e piatto
  12. Ghiro ghiro tonto
  13. La mela di Amleto
  14. I. Il gatto bigotto
  15. II. La mela di Amleto
  16. III. La farfalla di Follonica
  17. IV. Paesaggi senza peso
  18. Tre lievi levrieri
  19. Scialoja, la fortuna critica di un «ippogrifante» di Orietta Bonifazi
  20. Nota all’edizione 1989
  21. Il libro
  22. L’autore
  23. Dello stesso autore
  24. Copyright
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APA 6 Citation

Scialoja, T. (2014). Versi del senso perso ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3379044/versi-del-senso-perso-pdf (Original work published 2014)

Chicago Citation

Scialoja, Toti. (2014) 2014. Versi Del Senso Perso. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3379044/versi-del-senso-perso-pdf.

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Scialoja, T. (2014) Versi del senso perso. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3379044/versi-del-senso-perso-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Scialoja, Toti. Versi Del Senso Perso. [edition unavailable]. EINAUDI, 2014. Web. 15 Oct. 2022.