Comincio dal nome: nomen omen, come si diceva una volta. Ovvero, parodiando un celebre titolo, «Dellâimportanza di chiamarsi Norberto». Ho ereditato questo strano nome di un vescovo tedesco vissuto fra lâundecimo ed il dodicesimo secolo da mio nonno materno, nato nel 1847 in un piccolo paese sulla riva destra della Bormida fra Acqui ed Alessandria. Le cronache familiari narrano che a mio nonno, ultimo rampollo di una famiglia numerosa, i genitori non avendo piĂș a disposizione i soliti sette o otto nomi di famiglia, avessero deciso di dare il nome di un poeta piemontese allora in grande voga: Norberto Rosa. Come abbia potuto questo non eccelso poeta della val di Susa essere tanto celebre nella val Bormida, per me Ăš sempre stato un mistero, soprattutto dopochĂ©, in omaggio al nome, ho tentato piĂș volte di leggerne le poesie raccolte nei due volumi pubblicati a Torino nel 1849 dallo stabilimento tipografico di Alessandro Fontana, senza essere mai riuscito ad andare al di lĂ delle prime cinquanta pagine. Le stesse cronache familiari hanno tramandato la notizia (falsa) che la fama di Norberto Rosa nelle contrade alessandrine fosse dovuta al fatto (vero) che egli avesse promosso la sottoscrizione per lâacquisto dei Cento Cannoni che avrebbero dovuto munire i cosiddetti «forti esterni» della cittĂ . Ma il fatto avvenne nel 1857 mentre mio nonno era nato dieci anni prima. No, Norberto Rosa era dunque celebre proprio per le sue poesie. Come lo sia diventato e perchĂ©, tanto da costringere un ignaro bambino nato nel 1847 e un suo ancor piĂș ignaro nipotino nato piĂș di 70 anni dopo a portare un nome cosĂ estraneo allâonomastica monferrina, giro la domanda ai cultori di storia letteraria piemontese.
Ma lâoroscopo non finisce qui: il paese che ho sopra nominato si chiama Rivalta Bormida, ed Ăš nientemeno (notizia vera) la patria dâorigine della famiglia di Giuseppe Baretti. Un mio cugino, archivista dellâArchivio di stato, fece un tempo delle ricerche sulla famiglia dei «Barett» in Rivalta1, scoperse e indicĂČ esattamente il luogo della «Ca dâ Barett», della «Cört dâ Barett» (ancor oggi sulla strada fra Rivalta e Montaldo câĂš una grossa cascina che si chiama la «Baretta»). Che la notizia sia vera Ăš testimoniato dallo stesso Baretti in alcune note sue lettere, quella ad esempio dellâaprile 1766 in cui si legge: «Da Acqui andai a Rivalta a vedere altri parenti, parte ricchi, parte poveri, parte nobili, parte plebei. Oh quanti ne trovai di ogni generazione in quei paesi!» Per i buongustai di storia locale, nella stessa lettera si legge anche questo: «Ma tutti i beni e tutte le giocondezze della vita debbono pur aver fine: e cosĂ lâebbero, tutte quelle che godetti in quellâalto Monferrato, dâonde partii dieci dĂ sono, conducendo meco nove muli carichi di vini preziosissimi, principale derrata di quella provincia, regalatami a gara da numerosissimi parenti ed amici che ho in quella regione, perchĂ© me li beva in InghilterraâŠÂ» Non so quanti sappiano invece che sulla vecchia casa dei Baretti di Rivalta Ăš stata posta una lapide, la cui iscrizione fu dettata, mi pare di ricordare, dal «barettologo», Luigi Piccioni, allora preside del Liceo Alfieri, in cui si legge: «Da famiglia patrizia di questo comune | nacque Giuseppe Baretti | scrittore di rara efficacia | critico battagliero e novatore | coraggioso assertore di italianitĂ | nella Francia e nellâInghilterra del secolo XVIII | Onde il Duce della nuova Italia volle che fosse solennemente celebrato il 21 settembre 1935».
Tutto si tiene: Giuseppe Baretti fu uno dei numi tutelari di Piero Gobetti che gli dedicĂČ la sua ultima rivista, e fu la prima rivista alla quale mi abbonai in vita mia, al primo anno di universitĂ (1927-28), per ingiunzione di Augusto Monti, che ne era diventato il direttore occulto. Gobetti aveva svolto per due anni lâattivitĂ di critico teatrale allâ«Ordine Nuovo» brandendo la frusta e firmandosi «Baretti Giuseppe» nonchĂ© in alcuni ultimi articoli «MastigĂ foro», cioĂš appunto portatore di frusta. Nellâultima pagina del mio libretto Trentâanni di storia della cultura a Torino (1920-1950)2, che Ăš dedicato idealmente a Gobetti, mi definivo un piemontese che a un certo momento della sua vita aveva sentito il bisogno di «spiemontizzarsi». Pensavo ad Alfieri. Subito dopo aver letto quelle mie pagine, lâamico Dionisotti mi inviĂČ un suo articolo di qualche anno prima, intitolato Piemontesi e spiemontizzati, dove mostrava che il primo di coloro che, nati in Piemonte, «vollero cambiar aria, e di aver cambiato non ebbero a pentirsi», era stato Baretti, espatriato su per giĂș negli anni in cui Alfieri era nato3. Dunque Gobetti piemontesista quantâaltri mai (su Gobetti piemontese ha scritto recentemente pagine come al solito ben documentate Giancarlo Bergami)4 aveva elevato a modelli ideali due spiemontizzati. Ma câĂš poi contraddizione fra il piemontesismo e la spiemontizzazione?
Chiuso il preambolo, proprio da questa domanda potrebbe cominciare un discorso meno occasionale e meno personale sulla cultura in Piemonte. Mi pare si possa dire, se pure con quella schematicitĂ propria delle tesi troppo generali, che ogni riflessione sulla cultura piemontese Ăš destinata a imbattersi continuamente nei due atteggiamenti opposti, di chi si ribella alla patria matrigna e di chi Ăš fiero di esserne figlio, due atteggiamenti che appaiono opposti ma poi entrano lâuno nellâaltro, si confondono lâuno con lâaltro, come si trattasse delle due facce della stessa medaglia.
Prendiamo un caso tipico, Massimo dâAzeglio. Anche Massimo se nâera andato a Milano per respirare aria piĂș libera, perchĂ© «a Torino câera da morir tisico», e «le arti vi erano tollerate come gli Ebrei in ghetto», e ogni volta che vi tornava non vedeva lâora di scappare, spintovi da «quellâabuso di regolaritĂ , di formalitĂ , di distinzioni sociali, di gesuitismo, quella mancanza assoluta dâogni sintomo di energia e di vita che lâopprimeva»5. Eppure dopo Alfieri Ăš il piĂș alto emblema, e il piĂș celebrato e perdurante, del piemontesismo, da Calandra a Thovez, da Faldella a Gozzano, da Gobetti a Monti, come ha mostrato recentemente un altro valente giovane studioso di cose piemontesi, Giovanni Tesio6. E potrei aggiungere Burzio che fra dâAzeglio e Cavour Ăš incerto a chi dare la palma, e scrive: «Azeglio Ăš la morale pura ed intransigente che, pur nella vita pratica e di fronte alle esigenze del successo, sdegna le doppiezze e non si piega ai compromessi; Cavour Ăš invece la politica eterna, che piega i mezzi al fine e opera sulla realtĂ quale Ú», e pur riconoscendo che il primo fu tra i vinti e il secondo fu il grande vincitore, si domanda se non sia stata lâ«alta ispirazione morale e lâassoluta lealtĂ di condotta del dâAzeglio a dare i frutti migliori, anche politici»7. E che dire del generosamente iperbolico Valdo Fusi che comincia il suo libro (postumo) su Torino, cosĂ: «La storia della cittĂ , nei primi millecinquecento anni, non figura tra le piĂș sfolgoranti, ma da quando Emanuele Filiberto la promuove capitale del suo ducato, diventa unâofficina; unâofficina che ha sfornato prodotti, quasi tutti ineccepibili, e un capolavoro: Massimo dâAzeglio»?8
La veritĂ Ăš che fra piemontesismo e spiemontizzazione non sempre câĂš opposizione. Dipende. CâĂš il piemontesismo gretto, gianduiesco, che diffida del diverso perchĂ© non arriva a capirlo e lo teme, e câĂš il piemontesismo che si rafforza, si rassicura, sâinnalza nel confronto con gli altri «ismi» regionali o nazionali, perchĂ©, consapevole delle proprie virtĂș ma anche dei propri vizi, non esalta, al confronto, le prime, ma le pratica, non compatisce i secondi e quasi se ne compiace ma si sforza di guarirne. Per il primo, lâItalia non Ăš stata per usare in senso positivo un verbo che si legge nel Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri di Giuseppe Ferrari, ma con una connotazione negativa, «impiemontizzata» abbastanza9. Si pensi a un Thovez che scrive: «⊠mi confermo sempre piĂș nella mia vecchia idea che i piemontesi potrebbero essere i migliori uomini di stato italiani, essendo, in generale, onesti, prudenti, freddi e saldi nelle convinzioni, nemici delle lustre e della rettorica, che Ăš la peste di tutti gli italiani dei paesi meridionali»10. Il secondo sa vedere di questa espansione piemontese che Ăš stata solo militare e burocratica, e non anche intellettuale, i limiti e i difetti, e per capovolgerne il corso muove alla scoperta delle proprie glorie letterarie, donde nasce il mito dâAlfieri poeta civile. (Di questo mito ho parlato a proposito di Gobetti e di Calosso, e del loro diverso modo, il primo piemontesista convinto ma non querulo, il secondo ironico antipiemontesista, dâinterpretarlo)11. Non si puĂČ negare che la storia della cultura piemontese sia stata continuamente attraversata, e quasi ferita, da un certo senso dâinferioritĂ di fronte allo splendore delle lettere e delle arti di cui vanno fiere altre regioni dâItalia, e morsa dallâambizione, recuperando il tempo perduto, di contenderne il primato, giunto il momento in cui la missione storica che il destino aveva assegnato a questa terra di confine poteva considerarsi compiuta. In un saggio sulla Letteratura del Risorgimento in Piemonte, apparso nel 1898, Giovanni Cena, dopo aver fatto una rapida corsa da Baretti a Tarchetti allo scopo di concludere che il Piemonte non ha niente da invidiare alle altre regioni italiane, spia i sintomi di una sua rinascenza letteraria e si domanda: «Un risveglio di genialitĂ corre dunque su questa fredda terra che il carattere chiuso e rude e il regime concentrato e ferreo avevano per tanto tempo resa sorda ai richiami della poesia e dellâarte?» La risposta Ăš affermativa: al Piemonte, egli risponde, Ăš forse serbata ancora una missione, «indurre, come indusse in tutta la vita italiana, anche nellâarte, una corrente sana e vitale, un poâ aspra forse, ma piena di energie originarie, che nellâatmosfera corrotta da profumi inebbrianti e artificiosi porti le emanazioni delle praterie pingui e delle foreste montane»12. Balenava in queste parole la speranza che il primato intellettuale del Piemonte fosse il naturale coronamento del primato civile.
Ho citato questo brano perchĂ© esprime bene il senso di rivincita di chi vuol risollevarsi dopo essere stato per lungo tempo sotto il giogo altrui. Ma che quella speranza si sia avverata, la speranza che il Piemonte avesse il compito di indurre «una corrente aspra e vitale» nella letteratura italiana, credo che nessuno possa in coscienza affermare, meno che mai chi pensi al «fanciullo tenero e antico» che fu incontestabilmente il maggior poeta piemontese del nuovo secolo. Questo fanciullo, «un peu antique et tiendre» â cosĂ Francis Jammes che Gozzano aveva ricalcato13 â mi Ăš venuto allâimprovviso in mente quando ho rivisto in un volume della Storia dâItalia einaudiana una bellissima fotografia del poeta, sdraiato su una roccia in un elegante vestito da montagna, sullo sfondo delle alpi nevose â lo scenario mirabile, che un buon piemontese non puĂČ ignorare, dal Breithorn al Castore â, solitario, dolente, assorto, melanconico. Nulla che faccia pensare alle «emanazioni» di «praterie pingui e di foreste montane». Un paesaggio sgombro e duro, e un giovane stanco, quasi esangue, che si confonde, quasi sparisce, in esso. Se câĂš un periodo in cui Torino Ăš stata tagliata fuori dai movimenti culturali che hanno animato e agitato il paese Ăš stato il primo decennio del secolo, la cosiddetta etĂ giolittiana. Nel saggio giĂ ricordato, Trentâanni di storia della cultura a Torino (1920-1950), contrapposi i trentâanni di cui avevo fatto la storia, da Gobetti a Pavese, ai trentâanni successivi, come il giorno e la notte, o meglio come il meriggio e il crepuscolo. Ma se li avessi confrontati con gli anni precedenti non avrei potuto fare a meno di esprimere suppergiĂș lo stesso giudizio.
Il secolo nuovo si puĂČ far cominciare dallâapparizione di «La critica». Scrivendone il programma nel novembre del 1902, Croce, dopo aver detto che bisogna promuovere «un generale risveglio filosofico», mortificato dal rozzo positivismo, spiega che egli Ăš idealista, perchĂ© «la filosofia non puĂČ essere se non idealistica». Nello stesso anno 1903, il vero «annus mirabilis» del «risveglio» apparvero, oltre il «Regno», organo del nazionalismo nascente, anche il «Leonardo», i cui direttori si proclamavano, non solo, come tutti ricordano, «desiderosi di liberazione, vogliosi dâuniversalitĂ , anelanti ad una superior vita intellettuale», ma anche «pagani e individualisti, personalisti e idealisti» e dove, di li a poco, Prezzolini avrebbe scritto: «Siamo accomunati qui nel âLeonardoâ piĂș dagli odi che dai fini comuni», e fra questi odi enumerava «positivismo, erudizione, arte verista, metodo storico, materialismo, veritĂ borghesi e collettiviste della democrazia â tutto questo puzzo di acido fenico, di grasso e di fumo, di sudor Popolare, questo stridor di macchine, questo affaccendarsi commerciale»14. Che lâidealismo di Croce non fosse quello dei leonardiani â il primo era una teoria filosofica, il secondo un umore â, non toglie che entrambi rappresentassero bene la reazione antipositivistica che segnĂČ, e non solo in Italia, il passaggio dal vecchio al nuovo secolo, nelle due diverse ma non sempre divergenti tendenze dello spiritualismo (intendo per «spiritualismo» la dottrina del primato dello spirito sulla materia, per cui anche la natura Ăš spirito e la storia umana Ăš interpretata come storia dello spirito nelle sue diverse guise) e lâirrazionalismo (con cui intendo tutte le filosofie e le pseudofilosofie del primato ora dellâintuizione sul concetto â Bergson â ora dellâazione sul pensiero â le varie forme di prammatismo). Non sempre divergenti, dico, anzi per un certo tratto di strada convergenti. Quando in un saggio del 1905, intitolato, A proposito del positivismo italiano, Croce si vanta di non essere mai stato positivista, depreca il tempo ormai felicemente superato in cui «i soli filosofi riconosciuti legittimi, e circondati di rispetto, erano quelli che promettevano, con gesti da cavadenti arringanti alle folle sul biroccio carico di boccette e scatolini, di fare la filosofia nei âgabinettiâ, con gli âstrumentiâ e con le âmacchineâ» e conclude che il positivismo gli era parso «una rivolta di schiavi contro il rigore e la severitĂ della scienza»15, sembra quasi riecheggiare i giovani che per non chiamare spiritualisti potremmo chiamare «spiritati» (viene sempre da «spirito»). E se non li riecheggiĂČ egli ebbe per un certo tratto di strada a incoraggiarli, almeno sino al celebre saggio del 1907, Di un carattere della piĂș recente letter...