De senectute
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De senectute

e altri scritti autobiografici

Norberto Bobbio, Pietro Polito

  1. 240 pages
  2. Italian
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De senectute

e altri scritti autobiografici

Norberto Bobbio, Pietro Polito

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«Mentre il mondo del futuro è aperto all'immaginazione, e non ti appartiene piú, il mondo del passato è quello in cui attraverso la rimembranza ti rifugi in te stesso, ricostruisci la tua identità, che si è venuta formando e rivelando nella ininterrotta serie dei tuoi atti di vita, concatenati gli uni con gli altri, ti giudichi, ti assolvi, ti condanni, puoi anche tentare, quando il corso della vita sta per essere consumato, di fare il bilancio finale. Bisogna affrettarsi. Il vecchio vive di ricordi e per i ricordi, ma la sua memoria si affievolisce di giorno in giorno. Il tempo della memoria procede all'inverso di quello reale: tanto piú vivi i ricordi che affiorano nella reminescenza quanto piú lontani nel tempo gli eventi. Ma sai anche che ciò che è rimasto, o sei riuscito a scavare in quel pozzo senza fondo, non è che un'infinitesima parte della storia della tua vita. Non arrestarti. Non tralasciare di continuare a scavare.
Ogni volto, ogni gesto, ogni parola, ogni piú lontano canto, ritrovati, che sembravano perduti per sempre, ti aiutano a sopravvivere». Norberto Bobbio *** Nuova edizione. Con una Nota ai testi e una Nota biografica.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858408711

Scritti autobiografici

1.

Elogio del Piemonte

Comincio dal nome: nomen omen, come si diceva una volta. Ovvero, parodiando un celebre titolo, «Dell’importanza di chiamarsi Norberto». Ho ereditato questo strano nome di un vescovo tedesco vissuto fra l’undecimo ed il dodicesimo secolo da mio nonno materno, nato nel 1847 in un piccolo paese sulla riva destra della Bormida fra Acqui ed Alessandria. Le cronache familiari narrano che a mio nonno, ultimo rampollo di una famiglia numerosa, i genitori non avendo piú a disposizione i soliti sette o otto nomi di famiglia, avessero deciso di dare il nome di un poeta piemontese allora in grande voga: Norberto Rosa. Come abbia potuto questo non eccelso poeta della val di Susa essere tanto celebre nella val Bormida, per me è sempre stato un mistero, soprattutto dopoché, in omaggio al nome, ho tentato piú volte di leggerne le poesie raccolte nei due volumi pubblicati a Torino nel 1849 dallo stabilimento tipografico di Alessandro Fontana, senza essere mai riuscito ad andare al di là delle prime cinquanta pagine. Le stesse cronache familiari hanno tramandato la notizia (falsa) che la fama di Norberto Rosa nelle contrade alessandrine fosse dovuta al fatto (vero) che egli avesse promosso la sottoscrizione per l’acquisto dei Cento Cannoni che avrebbero dovuto munire i cosiddetti «forti esterni» della città. Ma il fatto avvenne nel 1857 mentre mio nonno era nato dieci anni prima. No, Norberto Rosa era dunque celebre proprio per le sue poesie. Come lo sia diventato e perché, tanto da costringere un ignaro bambino nato nel 1847 e un suo ancor piú ignaro nipotino nato piú di 70 anni dopo a portare un nome cosí estraneo all’onomastica monferrina, giro la domanda ai cultori di storia letteraria piemontese.
Ma l’oroscopo non finisce qui: il paese che ho sopra nominato si chiama Rivalta Bormida, ed è nientemeno (notizia vera) la patria d’origine della famiglia di Giuseppe Baretti. Un mio cugino, archivista dell’Archivio di stato, fece un tempo delle ricerche sulla famiglia dei «Barett» in Rivalta1, scoperse e indicò esattamente il luogo della «Ca d’ Barett», della «Cört d’ Barett» (ancor oggi sulla strada fra Rivalta e Montaldo c’è una grossa cascina che si chiama la «Baretta»). Che la notizia sia vera è testimoniato dallo stesso Baretti in alcune note sue lettere, quella ad esempio dell’aprile 1766 in cui si legge: «Da Acqui andai a Rivalta a vedere altri parenti, parte ricchi, parte poveri, parte nobili, parte plebei. Oh quanti ne trovai di ogni generazione in quei paesi!» Per i buongustai di storia locale, nella stessa lettera si legge anche questo: «Ma tutti i beni e tutte le giocondezze della vita debbono pur aver fine: e cosí l’ebbero, tutte quelle che godetti in quell’alto Monferrato, d’onde partii dieci dí sono, conducendo meco nove muli carichi di vini preziosissimi, principale derrata di quella provincia, regalatami a gara da numerosissimi parenti ed amici che ho in quella regione, perché me li beva in Inghilterra…» Non so quanti sappiano invece che sulla vecchia casa dei Baretti di Rivalta è stata posta una lapide, la cui iscrizione fu dettata, mi pare di ricordare, dal «barettologo», Luigi Piccioni, allora preside del Liceo Alfieri, in cui si legge: «Da famiglia patrizia di questo comune | nacque Giuseppe Baretti | scrittore di rara efficacia | critico battagliero e novatore | coraggioso assertore di italianità | nella Francia e nell’Inghilterra del secolo XVIII | Onde il Duce della nuova Italia volle che fosse solennemente celebrato il 21 settembre 1935».
Tutto si tiene: Giuseppe Baretti fu uno dei numi tutelari di Piero Gobetti che gli dedicò la sua ultima rivista, e fu la prima rivista alla quale mi abbonai in vita mia, al primo anno di università (1927-28), per ingiunzione di Augusto Monti, che ne era diventato il direttore occulto. Gobetti aveva svolto per due anni l’attività di critico teatrale all’«Ordine Nuovo» brandendo la frusta e firmandosi «Baretti Giuseppe» nonché in alcuni ultimi articoli «Mastigàforo», cioè appunto portatore di frusta. Nell’ultima pagina del mio libretto Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920-1950)2, che è dedicato idealmente a Gobetti, mi definivo un piemontese che a un certo momento della sua vita aveva sentito il bisogno di «spiemontizzarsi». Pensavo ad Alfieri. Subito dopo aver letto quelle mie pagine, l’amico Dionisotti mi inviò un suo articolo di qualche anno prima, intitolato Piemontesi e spiemontizzati, dove mostrava che il primo di coloro che, nati in Piemonte, «vollero cambiar aria, e di aver cambiato non ebbero a pentirsi», era stato Baretti, espatriato su per giú negli anni in cui Alfieri era nato3. Dunque Gobetti piemontesista quant’altri mai (su Gobetti piemontese ha scritto recentemente pagine come al solito ben documentate Giancarlo Bergami)4 aveva elevato a modelli ideali due spiemontizzati. Ma c’è poi contraddizione fra il piemontesismo e la spiemontizzazione?
Chiuso il preambolo, proprio da questa domanda potrebbe cominciare un discorso meno occasionale e meno personale sulla cultura in Piemonte. Mi pare si possa dire, se pure con quella schematicità propria delle tesi troppo generali, che ogni riflessione sulla cultura piemontese è destinata a imbattersi continuamente nei due atteggiamenti opposti, di chi si ribella alla patria matrigna e di chi è fiero di esserne figlio, due atteggiamenti che appaiono opposti ma poi entrano l’uno nell’altro, si confondono l’uno con l’altro, come si trattasse delle due facce della stessa medaglia.
Prendiamo un caso tipico, Massimo d’Azeglio. Anche Massimo se n’era andato a Milano per respirare aria piú libera, perché «a Torino c’era da morir tisico», e «le arti vi erano tollerate come gli Ebrei in ghetto», e ogni volta che vi tornava non vedeva l’ora di scappare, spintovi da «quell’abuso di regolarità, di formalità, di distinzioni sociali, di gesuitismo, quella mancanza assoluta d’ogni sintomo di energia e di vita che l’opprimeva»5. Eppure dopo Alfieri è il piú alto emblema, e il piú celebrato e perdurante, del piemontesismo, da Calandra a Thovez, da Faldella a Gozzano, da Gobetti a Monti, come ha mostrato recentemente un altro valente giovane studioso di cose piemontesi, Giovanni Tesio6. E potrei aggiungere Burzio che fra d’Azeglio e Cavour è incerto a chi dare la palma, e scrive: «Azeglio è la morale pura ed intransigente che, pur nella vita pratica e di fronte alle esigenze del successo, sdegna le doppiezze e non si piega ai compromessi; Cavour è invece la politica eterna, che piega i mezzi al fine e opera sulla realtà quale è», e pur riconoscendo che il primo fu tra i vinti e il secondo fu il grande vincitore, si domanda se non sia stata l’«alta ispirazione morale e l’assoluta lealtà di condotta del d’Azeglio a dare i frutti migliori, anche politici»7. E che dire del generosamente iperbolico Valdo Fusi che comincia il suo libro (postumo) su Torino, cosí: «La storia della città, nei primi millecinquecento anni, non figura tra le piú sfolgoranti, ma da quando Emanuele Filiberto la promuove capitale del suo ducato, diventa un’officina; un’officina che ha sfornato prodotti, quasi tutti ineccepibili, e un capolavoro: Massimo d’Azeglio»?8
La verità è che fra piemontesismo e spiemontizzazione non sempre c’è opposizione. Dipende. C’è il piemontesismo gretto, gianduiesco, che diffida del diverso perché non arriva a capirlo e lo teme, e c’è il piemontesismo che si rafforza, si rassicura, s’innalza nel confronto con gli altri «ismi» regionali o nazionali, perché, consapevole delle proprie virtú ma anche dei propri vizi, non esalta, al confronto, le prime, ma le pratica, non compatisce i secondi e quasi se ne compiace ma si sforza di guarirne. Per il primo, l’Italia non è stata per usare in senso positivo un verbo che si legge nel Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri di Giuseppe Ferrari, ma con una connotazione negativa, «impiemontizzata» abbastanza9. Si pensi a un Thovez che scrive: «… mi confermo sempre piú nella mia vecchia idea che i piemontesi potrebbero essere i migliori uomini di stato italiani, essendo, in generale, onesti, prudenti, freddi e saldi nelle convinzioni, nemici delle lustre e della rettorica, che è la peste di tutti gli italiani dei paesi meridionali»10. Il secondo sa vedere di questa espansione piemontese che è stata solo militare e burocratica, e non anche intellettuale, i limiti e i difetti, e per capovolgerne il corso muove alla scoperta delle proprie glorie letterarie, donde nasce il mito d’Alfieri poeta civile. (Di questo mito ho parlato a proposito di Gobetti e di Calosso, e del loro diverso modo, il primo piemontesista convinto ma non querulo, il secondo ironico antipiemontesista, d’interpretarlo)11. Non si può negare che la storia della cultura piemontese sia stata continuamente attraversata, e quasi ferita, da un certo senso d’inferiorità di fronte allo splendore delle lettere e delle arti di cui vanno fiere altre regioni d’Italia, e morsa dall’ambizione, recuperando il tempo perduto, di contenderne il primato, giunto il momento in cui la missione storica che il destino aveva assegnato a questa terra di confine poteva considerarsi compiuta. In un saggio sulla Letteratura del Risorgimento in Piemonte, apparso nel 1898, Giovanni Cena, dopo aver fatto una rapida corsa da Baretti a Tarchetti allo scopo di concludere che il Piemonte non ha niente da invidiare alle altre regioni italiane, spia i sintomi di una sua rinascenza letteraria e si domanda: «Un risveglio di genialità corre dunque su questa fredda terra che il carattere chiuso e rude e il regime concentrato e ferreo avevano per tanto tempo resa sorda ai richiami della poesia e dell’arte?» La risposta è affermativa: al Piemonte, egli risponde, è forse serbata ancora una missione, «indurre, come indusse in tutta la vita italiana, anche nell’arte, una corrente sana e vitale, un po’ aspra forse, ma piena di energie originarie, che nell’atmosfera corrotta da profumi inebbrianti e artificiosi porti le emanazioni delle praterie pingui e delle foreste montane»12. Balenava in queste parole la speranza che il primato intellettuale del Piemonte fosse il naturale coronamento del primato civile.
Ho citato questo brano perché esprime bene il senso di rivincita di chi vuol risollevarsi dopo essere stato per lungo tempo sotto il giogo altrui. Ma che quella speranza si sia avverata, la speranza che il Piemonte avesse il compito di indurre «una corrente aspra e vitale» nella letteratura italiana, credo che nessuno possa in coscienza affermare, meno che mai chi pensi al «fanciullo tenero e antico» che fu incontestabilmente il maggior poeta piemontese del nuovo secolo. Questo fanciullo, «un peu antique et tiendre» – cosí Francis Jammes che Gozzano aveva ricalcato13 – mi è venuto all’improvviso in mente quando ho rivisto in un volume della Storia d’Italia einaudiana una bellissima fotografia del poeta, sdraiato su una roccia in un elegante vestito da montagna, sullo sfondo delle alpi nevose – lo scenario mirabile, che un buon piemontese non può ignorare, dal Breithorn al Castore –, solitario, dolente, assorto, melanconico. Nulla che faccia pensare alle «emanazioni» di «praterie pingui e di foreste montane». Un paesaggio sgombro e duro, e un giovane stanco, quasi esangue, che si confonde, quasi sparisce, in esso. Se c’è un periodo in cui Torino è stata tagliata fuori dai movimenti culturali che hanno animato e agitato il paese è stato il primo decennio del secolo, la cosiddetta età giolittiana. Nel saggio già ricordato, Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920-1950), contrapposi i trent’anni di cui avevo fatto la storia, da Gobetti a Pavese, ai trent’anni successivi, come il giorno e la notte, o meglio come il meriggio e il crepuscolo. Ma se li avessi confrontati con gli anni precedenti non avrei potuto fare a meno di esprimere suppergiú lo stesso giudizio.
Il secolo nuovo si può far cominciare dall’apparizione di «La critica». Scrivendone il programma nel novembre del 1902, Croce, dopo aver detto che bisogna promuovere «un generale risveglio filosofico», mortificato dal rozzo positivismo, spiega che egli è idealista, perché «la filosofia non può essere se non idealistica». Nello stesso anno 1903, il vero «annus mirabilis» del «risveglio» apparvero, oltre il «Regno», organo del nazionalismo nascente, anche il «Leonardo», i cui direttori si proclamavano, non solo, come tutti ricordano, «desiderosi di liberazione, vogliosi d’universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale», ma anche «pagani e individualisti, personalisti e idealisti» e dove, di li a poco, Prezzolini avrebbe scritto: «Siamo accomunati qui nel “Leonardo” piú dagli odi che dai fini comuni», e fra questi odi enumerava «positivismo, erudizione, arte verista, metodo storico, materialismo, verità borghesi e collettiviste della democrazia – tutto questo puzzo di acido fenico, di grasso e di fumo, di sudor Popolare, questo stridor di macchine, questo affaccendarsi commerciale»14. Che l’idealismo di Croce non fosse quello dei leonardiani – il primo era una teoria filosofica, il secondo un umore –, non toglie che entrambi rappresentassero bene la reazione antipositivistica che segnò, e non solo in Italia, il passaggio dal vecchio al nuovo secolo, nelle due diverse ma non sempre divergenti tendenze dello spiritualismo (intendo per «spiritualismo» la dottrina del primato dello spirito sulla materia, per cui anche la natura è spirito e la storia umana è interpretata come storia dello spirito nelle sue diverse guise) e l’irrazionalismo (con cui intendo tutte le filosofie e le pseudofilosofie del primato ora dell’intuizione sul concetto – Bergson – ora dell’azione sul pensiero – le varie forme di prammatismo). Non sempre divergenti, dico, anzi per un certo tratto di strada convergenti. Quando in un saggio del 1905, intitolato, A proposito del positivismo italiano, Croce si vanta di non essere mai stato positivista, depreca il tempo ormai felicemente superato in cui «i soli filosofi riconosciuti legittimi, e circondati di rispetto, erano quelli che promettevano, con gesti da cavadenti arringanti alle folle sul biroccio carico di boccette e scatolini, di fare la filosofia nei “gabinetti”, con gli “strumenti” e con le “macchine”» e conclude che il positivismo gli era parso «una rivolta di schiavi contro il rigore e la severità della scienza»15, sembra quasi riecheggiare i giovani che per non chiamare spiritualisti potremmo chiamare «spiritati» (viene sempre da «spirito»). E se non li riecheggiò egli ebbe per un certo tratto di strada a incoraggiarli, almeno sino al celebre saggio del 1907, Di un carattere della piú recente letter...

Table of contents

  1. Copertina
  2. De senectute
  3. Prefazione di Gustavo Zagrebelsky
  4. De senectute
  5. A me stesso
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Scritti autobiografici
  9. Appendice
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright
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Bobbio, N. (2013). De senectute ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3425587/de-senectute-e-altri-scritti-autobiografici-pdf (Original work published 2013)

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Bobbio, Norberto. (2013) 2013. De Senectute. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3425587/de-senectute-e-altri-scritti-autobiografici-pdf.

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Bobbio, N. (2013) De senectute. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3425587/de-senectute-e-altri-scritti-autobiografici-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Bobbio, Norberto. De Senectute. [edition unavailable]. EINAUDI, 2013. Web. 15 Oct. 2022.