Capitolo 1.
Uno straordinario «déjà -vu»
Gli studiosi utilizzano spesso lâespressione «grande trasformazione» per rendere il senso e la portata dei tumultuosi mutamenti che hanno investito lâItalia negli ultimi decenni. Di regola, pur virgolettandola, essi impiegano la formula in modo generico, per rendere lâidea di tante piccole trasformazioni â politiche, economiche, sociali, culturali â che nel loro insieme avrebbero prodotto, come di solito accade, qualcosa di piĂč della loro semplice somma: e cioĂš, appunto, una «grande trasformazione». Vi Ăš talora una qualche allusione al titolo della celebre opera di Karl Polanyi, The Great Transformation (2010), ma niente o poco di piĂč. Quasi mai ci si spinge oltre la superficie di quel titolo e in qualche caso, se non andiamo errati, anche quando lâallusione Ăš abbastanza chiara, non si cita nemmeno il suo autore (cfr. ad es. Dogliani-Scamuzzi 2015). La circostanza Ăš curiosa, perchĂ© proprio il capolavoro di Polanyi, pubblicato durante il secondo conflitto mondiale, puĂČ offrire una chiave di lettura di grande interesse per intendere alcune tendenze di fondo della storia italiana â e non solo italiana â tra XX e XXI secolo e per collocarla in un contesto piĂč ampio.
Prima di entrare in tema, vorrei dunque partire da quel libro e riprenderne gli argomenti principali. Essi ci raccontano quasi per filo e per segno, guardando al passato e altrove, ciĂČ che oggi abbiamo sotto gli occhi: una nuova e prepotente «grande trasformazione» che ha investito lâintero pianeta e, insieme ad esso, il Belpaese. Potremmo dire, come ormai si usa, una «grande trasformazione 2.0».
In quellâopera straordinaria, non a caso da diversi anni al centro di un rinnovato e diffuso interesse, Polanyi descriveva, su un arco temporale compreso tra il principio dellâOttocento e gli anni Venti e Trenta del Novecento, la nascita, le drammatiche convulsioni e poi il collasso della «civiltĂ del XIX secolo»: una civiltĂ fondata sulle quattro fondamentali istituzioni del balance of power (che aveva garantito la «pace dei Cento anni» tra il 1815 e il 1914); del gold standard (simbolo e leva dellâunificazione dellâeconomia mondiale); dellâeconomia di mercato con i suoi presunti meccanismi di autoregolazione (il vero motore di quella civiltĂ ); e dello Stato liberale (prodotto ed espressione istituzionale del self-regulating market).
Sono due, in estrema sintesi, gli argomenti che The Great Transformation mette in campo. Il primo Ăš che per comprendere lâascesa dei fascismi negli anni Venti e Trenta del Novecento bisogna risalire indietro di oltre un secolo e ricercarne le radici nellâInghilterra ricardiana, il luogo di nascita della rivoluzione industriale e soprattutto dellâ«economia di mercato». Il secondo Ăš che per rendersi conto di quale devastante sconvolgimento sociale la market economy ha effettivamente prodotto tra il principio dellâOttocento e la prima metĂ del Novecento bisogna allargare ulteriormente lo sguardo alla vicenda piĂč generale del rapporto tra economia, societĂ e politica nella storia delle comunitĂ umane. Discende da questa seconda mossa il raggio estremamente ampio della ricerca di Polanyi, che trascina il lettore in ogni dove: dallâInghilterra dei Tudor e dei primi Stuart alle isole Trobriand nella Melanesia occidentale, dallâEuropa merovingia alla civiltĂ delle piramidi, dalla Gran Bretagna della Speenhamland Law (un primo disastroso esperimento ante litteram di «reddito di cittadinanza») e poi della piena affermazione del «mercato del lavoro» fino agli Stati Uniti in prepotente ascesa economica, da Wall Street e dalla City di Londra alle comunitĂ di villaggio africane disintegrate dal colonialismo, dalle opere di Aristotele, Adam Smith, Bentham, Marx e Owen fino a quelle di Townsend, Malthus, Ricardo, von Mises e molti altri.
Attraverso questa vastissima e avvincente ricognizione, Polanyi rilevava anzitutto come lâavvento dellâeconomia di mercato avesse segnato una rottura radicale col passato. Prima di allora, e fin dal principio della storia stessa delle comunitĂ umane, lâeconomia era sempre stata incorporata (embedded) e subordinata alla politica, alla religione e ai rapporti sociali. I suoi principi regolatori erano la «reciprocità », la «redistribuzione» e lâ«economia domestica», vale a dire la produzione per lâuso proprio o del proprio gruppo. Poi perĂČ, nel XIX secolo, in concomitanza con lâavvento dellâindustrialismo e della moderna divisione del lavoro, quello schema doveva rovesciarsi. Si affermĂČ allora lâassioma secondo cui era lâeconomia â nella forma di un mercato capace di autoregolarsi e di garantire una ricchezza crescente e diffusa â che doveva incorporare, modellare e subordinare a sĂ© le relazioni sociali e la vita stessa delle persone. La terra (e cioĂš la natura), il lavoro (e cioĂš lâuomo e la sua attivitĂ ) e la stessa moneta (un semplice mezzo di scambio) si trasformarono cosĂŹ in «merci» da vendere e comprare liberamente sul mercato secondo lâobiettivo del guadagno e del profitto e senza interferenze esterne. A queste dinamiche fu progressivamente assoggettata lâintera organizzazione sociale. Gli economisti classici â in particolare Townsend, Malthus e Ricardo â costruirono su questi postulati le proprie teorie, che dovevano dominare come veri e propri dogmi di una religione secolare lâintero Ottocento.
Secondo Polanyi, tuttavia, lâidea di un mercato autoregolato costituiva un «progetto utopico» e, al contempo, una «fantasia» molto pericolosa, che avrebbe messo a repentaglio la «sostanza umana e naturale della società ». Nella sua visionaria astrattezza essa era destinata a produrre costi sociali altissimi, tali da distruggere «lâuomo fisicamente» e trasformare «il suo ambiente in un deserto».
Quellâidea rappresentava inoltre una grandiosa finzione o almeno una mezza bugia. Come infatti ben sapevano gli stessi economisti classici, le market societies realmente esistenti non potevano davvero separarsi dal loro riferimento alla societĂ riducendola a una somma astratta di avidi e scheletrici homines Ćconomici, se non al prezzo â insostenibile per tutti â della sua «demolizione». Esse avevano dunque strutturalmente bisogno, anche dal punto di vista delle loro classi dominanti, di poter contare sul ruolo attivo dello Stato e della politica in settori cruciali quali la moneta, il credito, lâistruzione e la formazione dei lavoratori, i prezzi, i sussidi contro la disoccupazione, il controllo della conflittualitĂ sociale e delle classi pericolose, e via dicendo. Il laissez-faire, insomma, andava politicamente costruito e organizzato, e anche difeso da sĂ© stesso. Proprio per questa ragione â aggiunge Polanyi â esso risultava poi difficilmente falsificabile sul piano teorico. I suoi fanatici apologeti, infatti, potevano sempre attribuirne gli insuccessi proprio allâintromissione dello Stato e della politica nei presunti meccanismi virtuosi e metafisici della «mano invisibile».
Al di lĂ del mito, dunque â ed Ăš questo uno degli argomenti principali di The Great Transformation â, le market societies realmente esistenti risultavano fatalmente intrappolate in un «doppio movimento», che poteva assumere di volta in volta diverse intensitĂ : da un lato, un movimento di assoggettamento della societĂ alle logiche insocievoli del mercato; dallâaltro, un contro-movimento di protezione della societĂ dai pericoli e dalle instabilitĂ del mercato stesso, giocato per lo piĂč sul terreno del controllo e della regolazione da parte della politica e dello Stato. Il primo movimento, come si Ăš giĂ detto, portava direttamente alla distruzione della societĂ . Il secondo, tuttavia, ostacolando lâautoregolazione del mercato, «disorganizzava la vita industriale e metteva cosĂŹ in pericolo la societĂ in un altro modo».
Secondo Polanyi, questi due «movimenti» dovevano acquistare la loro massima energia in connessione con unâulteriore e decisiva innovazione della storia economica e non solo economica dellâOttocento: il gold standard, la cui adozione divenne sempre piĂč generalizzata a partire dagli anni Settanta di quel secolo. Con esso lâutopia dellâeconomia di mercato raggiunse la sua piĂč alta perfezione. Il gold standard, infatti, dava forma e ordine a un mercato unico mondiale in cui ogni paese, accettandone volontariamente le regole, poteva scambiare con tutti gli altri e a beneficio di ognuno, senza bisogno di un governo o di unâautoritĂ finanziaria globale. Il mercato autoregolantesi poteva a quel punto apparire come unâentitĂ in qualche modo «naturale», in grado di condizionare, al di lĂ degli Stati e della politica, le performances economiche dei piĂč svariati attori in un mondo teoricamente privo di confini e di nazioni.
Il risultato di questa utopia realizzata, tuttavia, doveva essere totalmente contrario alle attese e alle promesse della maggior felicitĂ per il maggior numero. Essa, infatti, finĂŹ per imporre costi sociali e umani semplicemente inaccettabili a quei popoli che, per le piĂč diverse ragioni, non potevano competere con successo sul mercato internazionale con le sue crude regole.
Alle logiche distruttive del mercato doveva dunque subentrare in modo pressochĂ© spontaneo la pulsione irresistibile a «difendere la società » nel suo complesso; al primato assoluto dellâeconomia pura il ritorno in grande stile della sua subordinazione alla politica delle singole unitĂ statal-nazionali; al sogno di un mondo liberato dalle guerre e riplasmato dal commercio lâincubo della guerra. Da qui la diffusione universale delle legislazioni sociali e del protezionismo, la corsa alle colonie, il trionfo degli imperialismi, le crescenti rivalitĂ tra le grandi potenze e quindi la catastrofe della prima guerra mondiale. Essa doveva porre fine, insieme alla dura astrazione del gold standard, anche alla «pace dei Cento anni», figlia legittima â soprattutto negli ultimi decenni prima del conflitto â degli interessi fondamentalmente pacifici della haute finance.
La lezione, perĂČ, non era stata sufficiente. Un ciclo piĂč breve ma molto simile, infatti, era destinato a riprodursi in forme ancor piĂč gravi e precipitose negli anni Venti e Trenta del Novecento, dopo una rapida ripresa dellâeconomia di mercato e dei suoi miti tra il 1924 e il 1929. A quel punto, perĂČ, sopraggiunse come un uragano la Grande Depressione, che mostrĂČ nelle forme piĂč estreme il carattere distruttivo della market economy. Essa, soprattutto, doveva riattivare robustissime spinte alla protezione della societĂ e portare cosĂŹ al crollo la «civiltĂ del XIX secolo», travolgendo questa volta anche le istituzioni liberali con i primi esperimenti di pianificazione nellâUnione Sovietica di Stalin, con il New Deal negli Stati Uniti e in special modo con lâavvento e la diffusione dei fascismi in Europa. Fenomeni certo molto diversi tra loro, che tuttavia provavano a offrire una risposta al mito di unâeconomia pura di mercato di scala globale, nel primo e nel terzo caso sacrificando la stessa democrazia. A farne le spese, ancora una volta, doveva essere pochi anni dopo la pace, travolta dal dramma catastrofico della seconda guerra mondiale.
Fin qui dunque, nella sostanza, Polanyi e la sua «grande trasformazione». La lettura Ăš impressionante. Non Ăš infatti difficile scorgere nelle dinamiche che il suo capolavoro descrive una serie di sviluppi che, tolto un dettaglio cruciale su cui ci soffermeremo piĂč avanti, sono tornati a essere per noi assai familiari negli ultimi decenni. CiĂČ significa, a ben vedere, che Polanyi era stato forse troppo precipitoso, dal suo particolare osservatorio, a decretare il crollo della civiltĂ del XIX secolo negli anni Venti e Trenta del Novecento. Anche se in forme un poâ diverse, infatti, quella civiltĂ sembra oggi viva e vegeta e piĂč potente che mai, sia pure dopo una eclisse di qualche decennio. Ad ogni modo â ed Ăš questo il punto che vale la pena sottolineare â chiunque legga o rilegga oggi The Great Transformation non puĂČ sottrarsi allâimpressione di trovarsi di fronte a uno straordinario dĂ©jĂ -vu. Non Ăš un caso che ormai da qualche tempo si parli sempre piĂč spesso di un vero e proprio «momento Polanyi» (Somma 2018).
Nellâultimo mezzo secolo, infatti, il mito di unâeconomia di mercato capace di autoregolarsi ha ripreso ad aggirarsi in grande stile in ampia parte del pianeta, sostenuto da grandi centri universitari e potenti istituti di ricerca e dalle teorie di influentissimi intellettuali del calibro di Friedrich von Hayek e Milton Friedman. Esso ha poi cominciato poco per volta a imporre ovunque le sue regole, favorito dai progressi della globalizzazione, che ha integrato in una misura senza precedenti â grazie anche a strepitosi progressi tecnici soprattutto nel campo delle comunicazioni â commerci e flussi di capitale, colossali spostamenti di imprese e anche di esseri umani in un gigantesco mercato unico mondiale ormai governato da borse, brokers, agenzie di rating e persino algoritmi «postumani». Ne Ăš derivato poco per volta un modello di sviluppo che, anche per effetto della «shock economy» di cui ha parlato Naomi Klein (2007), costituisce la versione aggiornata al XXI secolo della disembedded market economy di Polanyi.
Trascorsi i «Trenta gloriosi» e la golden age â vale a dire gli anni compresi tra la fine del secondo conflitto mondiale e la metĂ degli anni Settanta â sono stati la Gran Bretagna di Margaret Thatcher (1979-1990) e subito dopo gli Stati Uniti di Ronald Reagan (1981-1989) a dare concretamente il via al processo, iniziando a demolire quella forma di protezione della societĂ dal mercato che Ăš lo «Stato sociale». A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta ogni argine Ăš poi crollato con la caduta dei regimi comunisti nellâEuropa centro-orientale e in Unione Sovietica, il prepotente ingresso della Cina nei mercati mondiali, il Washington Consensus, la stessa nascita dellâUnione Europea a Maastricht, perfezionata dallâintroduzione dellâeuro nel 2002.
Da allora â e sono gli anni che qui ci interessano â in gran parte del pianeta, le logiche cosiddette «neoliberali» del mercato hanno travolto e assoggettato tutto o quasi tutto, incontrando resistenze sempre piĂč deboli. Esse hanno esercitato anche un fortissimo effetto di omologazione sulle forze politiche di governo e di opposizione, riducendo in ampia misura le distanze tra i tradizionali partiti di destra e di sinistra e azzerando quasi del tutto la loro vocazione piĂč propria...