La rivolta della società
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La rivolta della società

L'Italia dal 1989 a oggi

Francesco Tuccari

  1. 144 pagine
  2. Italian
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La rivolta della società

L'Italia dal 1989 a oggi

Francesco Tuccari

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Negli ultimi trent'anni l'Italia e gli italiani sono profondamente cambiati. Assetti demografici, lavoro, welfare, produzione, consumi, stili di vita, forme della partecipazione e della comunicazione, partiti, sistema politico: quasi nulla è più come prima. Il libro prova a ricostruire i più importanti tra questi mutamenti – lo choc migratorio, il declino economico, la metamorfosi dei valori e delle appartenenze, gli effetti della rivoluzione digitale – per concentrarsi quindi sulle trasformazioni del sistema politico tra Prima e Terza Repubblica. Riprendendo e aggiornando le tesi di Karl Polanyi sulla 'grande trasformazione', l'autore colloca al centro del quadro l'urto strisciante e poi frontale tra le forze sempre più invincibili della globalizzazione, in particolare del mercato e dell'economia globali, e un paese messo progressivamente in ginocchio dai suoi effetti distruttivi. Ne è derivata una confusa e disordinata 'rivolta della società', che ha voltato le spalle alle vecchie forze politiche della Seconda Repubblica, sempre più incapaci di proteggerla, e che ha ceduto infine alle velleitarie promesse di riscatto dei populismi. Una trappola insidiosa, dalla quale – almeno per un po' di tempo – sarà assai difficile uscire. In Italia e in molte altre parti del mondo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858140918
Argomento
Economics

Capitolo 1.
Uno straordinario «déjà-vu»

Gli studiosi utilizzano spesso l’espressione «grande trasformazione» per rendere il senso e la portata dei tumultuosi mutamenti che hanno investito l’Italia negli ultimi decenni. Di regola, pur virgolettandola, essi impiegano la formula in modo generico, per rendere l’idea di tante piccole trasformazioni – politiche, economiche, sociali, culturali – che nel loro insieme avrebbero prodotto, come di solito accade, qualcosa di più della loro semplice somma: e cioè, appunto, una «grande trasformazione». Vi è talora una qualche allusione al titolo della celebre opera di Karl Polanyi, The Great Transformation (2010), ma niente o poco di più. Quasi mai ci si spinge oltre la superficie di quel titolo e in qualche caso, se non andiamo errati, anche quando l’allusione è abbastanza chiara, non si cita nemmeno il suo autore (cfr. ad es. Dogliani-Scamuzzi 2015). La circostanza è curiosa, perché proprio il capolavoro di Polanyi, pubblicato durante il secondo conflitto mondiale, può offrire una chiave di lettura di grande interesse per intendere alcune tendenze di fondo della storia italiana – e non solo italiana – tra XX e XXI secolo e per collocarla in un contesto più ampio.
Prima di entrare in tema, vorrei dunque partire da quel libro e riprenderne gli argomenti principali. Essi ci raccontano quasi per filo e per segno, guardando al passato e altrove, ciò che oggi abbiamo sotto gli occhi: una nuova e prepotente «grande trasformazione» che ha investito l’intero pianeta e, insieme ad esso, il Belpaese. Potremmo dire, come ormai si usa, una «grande trasformazione 2.0».
In quell’opera straordinaria, non a caso da diversi anni al centro di un rinnovato e diffuso interesse, Polanyi descriveva, su un arco temporale compreso tra il principio dell’Ottocento e gli anni Venti e Trenta del Novecento, la nascita, le drammatiche convulsioni e poi il collasso della «civiltà del XIX secolo»: una civiltà fondata sulle quattro fondamentali istituzioni del balance of power (che aveva garantito la «pace dei Cento anni» tra il 1815 e il 1914); del gold standard (simbolo e leva dell’unificazione dell’economia mondiale); dell’economia di mercato con i suoi presunti meccanismi di autoregolazione (il vero motore di quella civiltà); e dello Stato liberale (prodotto ed espressione istituzionale del self-regulating market).
Sono due, in estrema sintesi, gli argomenti che The Great Transformation mette in campo. Il primo è che per comprendere l’ascesa dei fascismi negli anni Venti e Trenta del Novecento bisogna risalire indietro di oltre un secolo e ricercarne le radici nell’Inghilterra ricardiana, il luogo di nascita della rivoluzione industriale e soprattutto dell’«economia di mercato». Il secondo è che per rendersi conto di quale devastante sconvolgimento sociale la market economy ha effettivamente prodotto tra il principio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento bisogna allargare ulteriormente lo sguardo alla vicenda più generale del rapporto tra economia, società e politica nella storia delle comunità umane. Discende da questa seconda mossa il raggio estremamente ampio della ricerca di Polanyi, che trascina il lettore in ogni dove: dall’Inghilterra dei Tudor e dei primi Stuart alle isole Trobriand nella Melanesia occidentale, dall’Europa merovingia alla civiltà delle piramidi, dalla Gran Bretagna della Speenhamland Law (un primo disastroso esperimento ante litteram di «reddito di cittadinanza») e poi della piena affermazione del «mercato del lavoro» fino agli Stati Uniti in prepotente ascesa economica, da Wall Street e dalla City di Londra alle comunità di villaggio africane disintegrate dal colonialismo, dalle opere di Aristotele, Adam Smith, Bentham, Marx e Owen fino a quelle di Townsend, Malthus, Ricardo, von Mises e molti altri.
Attraverso questa vastissima e avvincente ricognizione, Polanyi rilevava anzitutto come l’avvento dell’economia di mercato avesse segnato una rottura radicale col passato. Prima di allora, e fin dal principio della storia stessa delle comunità umane, l’economia era sempre stata incorporata (embedded) e subordinata alla politica, alla religione e ai rapporti sociali. I suoi principi regolatori erano la «reciprocità», la «redistribuzione» e l’«economia domestica», vale a dire la produzione per l’uso proprio o del proprio gruppo. Poi però, nel XIX secolo, in concomitanza con l’avvento dell’industrialismo e della moderna divisione del lavoro, quello schema doveva rovesciarsi. Si affermò allora l’assioma secondo cui era l’economia – nella forma di un mercato capace di autoregolarsi e di garantire una ricchezza crescente e diffusa – che doveva incorporare, modellare e subordinare a sé le relazioni sociali e la vita stessa delle persone. La terra (e cioè la natura), il lavoro (e cioè l’uomo e la sua attività) e la stessa moneta (un semplice mezzo di scambio) si trasformarono così in «merci» da vendere e comprare liberamente sul mercato secondo l’obiettivo del guadagno e del profitto e senza interferenze esterne. A queste dinamiche fu progressivamente assoggettata l’intera organizzazione sociale. Gli economisti classici – in particolare Townsend, Malthus e Ricardo – costruirono su questi postulati le proprie teorie, che dovevano dominare come veri e propri dogmi di una religione secolare l’intero Ottocento.
Secondo Polanyi, tuttavia, l’idea di un mercato autoregolato costituiva un «progetto utopico» e, al contempo, una «fantasia» molto pericolosa, che avrebbe messo a repentaglio la «sostanza umana e naturale della società». Nella sua visionaria astrattezza essa era destinata a produrre costi sociali altissimi, tali da distruggere «l’uomo fisicamente» e trasformare «il suo ambiente in un deserto».
Quell’idea rappresentava inoltre una grandiosa finzione o almeno una mezza bugia. Come infatti ben sapevano gli stessi economisti classici, le market societies realmente esistenti non potevano davvero separarsi dal loro riferimento alla società riducendola a una somma astratta di avidi e scheletrici homines œconomici, se non al prezzo – insostenibile per tutti – della sua «demolizione». Esse avevano dunque strutturalmente bisogno, anche dal punto di vista delle loro classi dominanti, di poter contare sul ruolo attivo dello Stato e della politica in settori cruciali quali la moneta, il credito, l’istruzione e la formazione dei lavoratori, i prezzi, i sussidi contro la disoccupazione, il controllo della conflittualità sociale e delle classi pericolose, e via dicendo. Il laissez-faire, insomma, andava politicamente costruito e organizzato, e anche difeso da sé stesso. Proprio per questa ragione – aggiunge Polanyi – esso risultava poi difficilmente falsificabile sul piano teorico. I suoi fanatici apologeti, infatti, potevano sempre attribuirne gli insuccessi proprio all’intromissione dello Stato e della politica nei presunti meccanismi virtuosi e metafisici della «mano invisibile».
Al di là del mito, dunque – ed è questo uno degli argomenti principali di The Great Transformation –, le market societies realmente esistenti risultavano fatalmente intrappolate in un «doppio movimento», che poteva assumere di volta in volta diverse intensità: da un lato, un movimento di assoggettamento della società alle logiche insocievoli del mercato; dall’altro, un contro-movimento di protezione della società dai pericoli e dalle instabilità del mercato stesso, giocato per lo più sul terreno del controllo e della regolazione da parte della politica e dello Stato. Il primo movimento, come si è già detto, portava direttamente alla distruzione della società. Il secondo, tuttavia, ostacolando l’autoregolazione del mercato, «disorganizzava la vita industriale e metteva così in pericolo la società in un altro modo».
Secondo Polanyi, questi due «movimenti» dovevano acquistare la loro massima energia in connessione con un’ulteriore e decisiva innovazione della storia economica e non solo economica dell’Ottocento: il gold standard, la cui adozione divenne sempre più generalizzata a partire dagli anni Settanta di quel secolo. Con esso l’utopia dell’economia di mercato raggiunse la sua più alta perfezione. Il gold standard, infatti, dava forma e ordine a un mercato unico mondiale in cui ogni paese, accettandone volontariamente le regole, poteva scambiare con tutti gli altri e a beneficio di ognuno, senza bisogno di un governo o di un’autorità finanziaria globale. Il mercato autoregolantesi poteva a quel punto apparire come un’entità in qualche modo «naturale», in grado di condizionare, al di là degli Stati e della politica, le performances economiche dei più svariati attori in un mondo teoricamente privo di confini e di nazioni.
Il risultato di questa utopia realizzata, tuttavia, doveva essere totalmente contrario alle attese e alle promesse della maggior felicità per il maggior numero. Essa, infatti, finì per imporre costi sociali e umani semplicemente inaccettabili a quei popoli che, per le più diverse ragioni, non potevano competere con successo sul mercato internazionale con le sue crude regole.
Alle logiche distruttive del mercato doveva dunque subentrare in modo pressoché spontaneo la pulsione irresistibile a «difendere la società» nel suo complesso; al primato assoluto dell’economia pura il ritorno in grande stile della sua subordinazione alla politica delle singole unità statal-nazionali; al sogno di un mondo liberato dalle guerre e riplasmato dal commercio l’incubo della guerra. Da qui la diffusione universale delle legislazioni sociali e del protezionismo, la corsa alle colonie, il trionfo degli imperialismi, le crescenti rivalità tra le grandi potenze e quindi la catastrofe della prima guerra mondiale. Essa doveva porre fine, insieme alla dura astrazione del gold standard, anche alla «pace dei Cento anni», figlia legittima – soprattutto negli ultimi decenni prima del conflitto – degli interessi fondamentalmente pacifici della haute finance.
La lezione, però, non era stata sufficiente. Un ciclo più breve ma molto simile, infatti, era destinato a riprodursi in forme ancor più gravi e precipitose negli anni Venti e Trenta del Novecento, dopo una rapida ripresa dell’economia di mercato e dei suoi miti tra il 1924 e il 1929. A quel punto, però, sopraggiunse come un uragano la Grande Depressione, che mostrò nelle forme più estreme il carattere distruttivo della market economy. Essa, soprattutto, doveva riattivare robustissime spinte alla protezione della società e portare così al crollo la «civiltà del XIX secolo», travolgendo questa volta anche le istituzioni liberali con i primi esperimenti di pianificazione nell’Unione Sovietica di Stalin, con il New Deal negli Stati Uniti e in special modo con l’avvento e la diffusione dei fascismi in Europa. Fenomeni certo molto diversi tra loro, che tuttavia provavano a offrire una risposta al mito di un’economia pura di mercato di scala globale, nel primo e nel terzo caso sacrificando la stessa democrazia. A farne le spese, ancora una volta, doveva essere pochi anni dopo la pace, travolta dal dramma catastrofico della seconda guerra mondiale.
Fin qui dunque, nella sostanza, Polanyi e la sua «grande trasformazione». La lettura è impressionante. Non è infatti difficile scorgere nelle dinamiche che il suo capolavoro descrive una serie di sviluppi che, tolto un dettaglio cruciale su cui ci soffermeremo più avanti, sono tornati a essere per noi assai familiari negli ultimi decenni. Ciò significa, a ben vedere, che Polanyi era stato forse troppo precipitoso, dal suo particolare osservatorio, a decretare il crollo della civiltà del XIX secolo negli anni Venti e Trenta del Novecento. Anche se in forme un po’ diverse, infatti, quella civiltà sembra oggi viva e vegeta e più potente che mai, sia pure dopo una eclisse di qualche decennio. Ad ogni modo – ed è questo il punto che vale la pena sottolineare – chiunque legga o rilegga oggi The Great Transformation non può sottrarsi all’impressione di trovarsi di fronte a uno straordinario déjà-vu. Non è un caso che ormai da qualche tempo si parli sempre più spesso di un vero e proprio «momento Polanyi» (Somma 2018).
Nell’ultimo mezzo secolo, infatti, il mito di un’economia di mercato capace di autoregolarsi ha ripreso ad aggirarsi in grande stile in ampia parte del pianeta, sostenuto da grandi centri universitari e potenti istituti di ricerca e dalle teorie di influentissimi intellettuali del calibro di Friedrich von Hayek e Milton Friedman. Esso ha poi cominciato poco per volta a imporre ovunque le sue regole, favorito dai progressi della globalizzazione, che ha integrato in una misura senza precedenti – grazie anche a strepitosi progressi tecnici soprattutto nel campo delle comunicazioni – commerci e flussi di capitale, colossali spostamenti di imprese e anche di esseri umani in un gigantesco mercato unico mondiale ormai governato da borse, brokers, agenzie di rating e persino algoritmi «postumani». Ne è derivato poco per volta un modello di sviluppo che, anche per effetto della «shock economy» di cui ha parlato Naomi Klein (2007), costituisce la versione aggiornata al XXI secolo della disembedded market economy di Polanyi.
Trascorsi i «Trenta gloriosi» e la golden age – vale a dire gli anni compresi tra la fine del secondo conflitto mondiale e la metà degli anni Settanta – sono stati la Gran Bretagna di Margaret Thatcher (1979-1990) e subito dopo gli Stati Uniti di Ronald Reagan (1981-1989) a dare concretamente il via al processo, iniziando a demolire quella forma di protezione della società dal mercato che è lo «Stato sociale». A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta ogni argine è poi crollato con la caduta dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale e in Unione Sovietica, il prepotente ingresso della Cina nei mercati mondiali, il Washington Consensus, la stessa nascita dell’Unione Europea a Maastricht, perfezionata dall’introduzione dell’euro nel 2002.
Da allora – e sono gli anni che qui ci interessano – in gran parte del pianeta, le logiche cosiddette «neoliberali» del mercato hanno travolto e assoggettato tutto o quasi tutto, incontrando resistenze sempre più deboli. Esse hanno esercitato anche un fortissimo effetto di omologazione sulle forze politiche di governo e di opposizione, riducendo in ampia misura le distanze tra i tradizionali partiti di destra e di sinistra e azzerando quasi del tutto la loro vocazione più propria...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo 1. Uno straordinario «déjà-vu»
  3. Capitolo 2. L’Italia nella globalizzazione
  4. Capitolo 3. Lo choc migratorio
  5. Capitolo 4. Declino economico, ritorno del «materialismo» e rivoluzione digitale
  6. Capitolo 5. Il crollo della repubblica dei partiti
  7. Capitolo 6. La repubblica postdemocratica
  8. Capitolo 7. Verso la repubblica del «popolo»? Il momento populista
  9. Capitolo 8. Epilogo e prospettive
  10. Bibliografia
Stili delle citazioni per La rivolta della società

APA 6 Citation

Tuccari, F. (2019). La rivolta della società ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3459798/la-rivolta-della-societ-litalia-dal-1989-a-oggi-pdf (Original work published 2019)

Chicago Citation

Tuccari, Francesco. (2019) 2019. La Rivolta Della Società. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459798/la-rivolta-della-societ-litalia-dal-1989-a-oggi-pdf.

Harvard Citation

Tuccari, F. (2019) La rivolta della società. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459798/la-rivolta-della-societ-litalia-dal-1989-a-oggi-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Tuccari, Francesco. La Rivolta Della Società. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2019. Web. 15 Oct. 2022.