I.
Alto e basso: una storia
di oppressori e oppressi
Tutte le distanze che gli uomini
hanno creato intorno a sé
sono dettate dal timore di essere toccati.
Elias Canetti, Massa e potere
In principio era la gerarchia
Ciascun uomo ha un suo posto preciso nel quale si sente sicuro, e con i gesti esprime efficacemente il suo diritto di tener lontano da sĂ© tutto ciĂČ che gli si avvicina. Egli sta come un mulino a vento in unâimmensa pianura, pieno dâespressione e mobile: non câĂš nulla fino al prossimo mulino. La vita intera, come egli la conosce, Ăš impostata su distanze; la casa in cui egli rinserra se stesso e la sua proprietĂ , lâincarico che riveste, il rango cui aspira â tutti servono a creare, consolidare, ingrandire distacchi.
Nella sua straordinaria opera Massa e potere, frutto di unâesperienza di vita e di studi che attraversa le tragedie del Novecento, Elias Canetti dedica alcune delle pagine iniziali alle differenze «imposte dal di fuori» (di rango, di condizione, di proprietĂ ), che «pesano sugli uomini» e li spingono a «staccarsi gli uni dagli altri». Proprio per «liberarsi dalle distanze che hanno costruito» e trovare un momentaneo sollievo, essi ambiscono a diventare componenti di una massa in cui «si sentono eguali»1. Continua cosĂŹ Canetti:
Gerarchie solidamente stabilite in ogni ambito dellâesistenza non permettono a nessuno, se non in apparenza, di toccare chi sta piĂč in alto, di calare verso chi sta piĂč in basso. Entro societĂ diverse, queste distanze sono reciprocamente bilanciate in modo diverso. In alcune lâaccento sta sulle differenze dâorigine, in altre sulle differenze di occupazione o di proprietĂ . Non Ăš il caso di distinguere singolarmente tali gerarchie. Ă essenziale notare che esse si trovano dappertutto, che si annidano ovunque nella coscienza degli uomini e determinano il loro comportamento verso gli altri.
Se queste righe testimoniano la grande intuizione di Canetti per cui le disparitĂ vanno ricondotte a una qualche forma di distanza, non câĂš bisogno di scomodare le teorie delle Ă©lite nĂ© i loro critici2 per constatare che la diseguaglianza ha sempre rappresentato la regola allâinterno delle societĂ umane â perlomeno fin da quando, con lâavvento dellâagricoltura, sono nate organizzazioni sociali complesse. A detenere il potere, insomma, Ăš sempre stata una ristretta minoranza: potremmo dire che la diseguaglianza Ăš uno dei «doni» della civiltĂ 3.
Certo, gli antropologi ci dicono che, forse, una diversa organizzazione sociale esiste â anzi, esisteva, dato che sono state ormai quasi del tutto annientate, attraverso lâassimilazione o la decimazione â nelle piccole bande di cacciatori e raccoglitori4, ove prevalevano rapporti egualitari, come mostrano gli studi, risalenti alla metĂ del Novecento, sugli Inuit dellâArtico o sui San del Botswana5. La tendenza a una strutturazione stratificata, perĂČ, Ăš senzâaltro prevalente: essa ha accomunato gruppi umani molto distanti tra loro nello spazio e nel tempo, a partire dagli antichi imperi delle pianure alluvionali dellâEgitto e della Mesopotamia, passando a quelli degli altopiani delle Ande o del Messico, per arrivare alla Cina, allâImpero Romano, fino a giungere, quasi senza eccezione, alle soglie della modernitĂ 6.
Nei secoli, anzi, nei millenni, sono cambiate le modalitĂ per lâaccesso al gruppo ristretto degli «eletti» â la leadership, non soltanto politica (che in democrazia Ăš, letteralmente, «eletta»), ma anche economica e intellettuale7 â nonchĂ© le sorgenti della loro legittimazione, ovvero la giustificazione delle diseguaglianze. La frattura e la distanza, invece, sono rimaste immutate.
Ă cosĂŹ che le diseguaglianze della struttura politica e sociale hanno dato luogo a concettualizzazioni basate su riferimenti spaziali. Fatichiamo a rendercene conto, ma quando parliamo di «ascensore sociale» che premi i piĂč «capaci e meritevoli», quando evochiamo il «paracadute sociale» per i perdenti nella «gara» o nel «gioco» della vita8, o alludiamo a scalate e arrampicatori, utilizziamo metafore spaziali le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Un lessico che ci Ăš familiare giĂ a partire dalla letteratura, punteggiata di storie di «ascesa» e «discesa» sociale. Tra le tante, quella di Josiah Bounderby di Coketown, in Tempi difficili di Charles Dickens, «un uomo che non si vantava mai abbastanza del fatto di essersi fatto da sé» e che soleva affermare «non porto mai i guanti, non mi sono arrampicato su per la scala sociale coi guanti indosso; se li avessi avuti non sarei arrivato cosĂŹ in alto»9. I riferimenti alla letteratura sarebbero numerosi, dal Martin Eden dellâomonimo romanzo di London, al Julien Sorel in Il rosso e il nero di Stendhal, fino al Grande Gatsby. Essi punteggiano diversi studi recenti sulla diseguaglianza e la mobilitĂ sociale, che richiamano i personaggi dei romanzi di Jane Austin, o di HonorĂ© de Balzac, ad iniziare da Le PĂšre Goriot10.
Niente di tutto ciĂČ Ăš casuale: organizzare i propri pensieri senza far ricorso a metafore spaziali, infatti, sembra impossibile per lâessere umano. Lo spazio, con le sue diverse dimensioni, il sopra e il sotto, il davanti e il dietro, il dentro e il fuori, la destra e la sinistra, ci offre un luogo per rappresentare i concetti al quale Ăš assai difficile rinunciare. CosĂŹ, esprimiamo lâuguale con il piano, il livellato, lo spianato11, il giusto (o retto) e lâingiusto (o lo storto) attraverso, rispettivamente, la linea retta e il segno contorto (pensiamo allâaforisma kantiano sullâuomo come «legno storto»)12. Facendo unâincursione in altre lingue, lâinglese bias, che indica la preferenza ingiustificata, il trattamento diseguale legato a un pregiudizio, incorpora la nozione di obliquitĂ , come ci mostra la sua derivazione etimologica dal provenzale biais, che significa (come lâodierno francese) «obliquo, ad angolo, trasversale, diagonale». Potremmo dire che, attraverso queste metafore, il potere «si fa spazio», ovvero assume una topografia, e che il linguaggio Ăš lo strumento che gli dĂ un luogo13.
Tra le varie categorie oppositive spaziali che definiscono la positio di un determinato oggetto (davanti/dietro, sopra/sotto, destra/sinistra, vicino/lontano, dentro/fuori)14, quella prevalente â come ci mostra il riferimento alla «scala», nonchĂ© alla sua stretta parente, la «piramide» â Ăš la coppia (o diade)15 sopra/sotto, con i suoi derivati, superiore/inferiore, che piĂč frequentemente viene espressa attraverso gli aggettivi alto/basso. CosĂŹ, chi detiene il potere e sta «sopra» viene sistematicamente definito «superiore», mentre chi lo subisce, stando «sotto», Ăš «inferiore» o «subalterno», e ciĂČ a prescindere dal fatto che si consideri questo ordine di cose giusto, ingiusto, oppure inevitabile, benchĂ© i giudizi di valore possano trasparire, come vedremo meglio tra poco, dalle sottili sfumature del linguaggio16.
In sostanza, la metafora spaziale verticale Ăš divenuta la principale forma espressiva del principio di gerarchia, inteso quale principio di ordinazione delle cose attraverso una graduazione asimmetrica, e pertanto diseguale. La gerarchia, insomma, sembra far parte dei processi cognitivi dellâessere umano: un essere che oltre a pensare agisce e, a tale scopo, Ăš chiamato a valutare le prioritĂ , ovvero a dare un ordine ai fini da perseguire17.
Lâetimologia della parola «gerarchia» ci porta nellâambito delle cose sacre. Rintracciabile in tutte le lingue indoeuropee, essa infatti deriva dal tardo greco ጱΔÏαÏÏία, composto di ጱΔÏáœčÏ, «sacro», e áŒÏÏΔÎčÎœ, «comandare, presiedere, essere a capo», ed Ăš utilizzata almeno a partire dai trattati Gerarchia celeste e Gerarchia ecclesiastica attribuiti al filosofo neoplatonico del V secolo noto come Dionigi lâAeropagita, o P...