Lo sguardo dello storico
di Salvatore Lupo
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato «golpe» [...]. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer o sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove.
P.P. Pasolini, CosâĂš questo golpe?, in «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, poi in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975.
â Lasciatele fare ai tedeschi del Tirolo, queste cose: gente fanatica, gente pazza; fascisti...
â Funzionava perĂČ la dinamite, funzionava; anche lei, in principio, quando...
â Lasciamo stare, dunque, questi mezzi da terroristi: noi non siamo anarchici, siamo persone dâordine... E i conti che abbiamo da regolare, da oggi li regoleremo allâantica.
â I ragazzi perĂČ ci avevano preso gusto...
â Certo che lâeffetto era grande, non lo posso negare... Ma non ci si puĂČ mettere su questa strada... O credi che dobbiamo metterci a lavorare per avere anche noi la bomba atomica?
L. Sciascia, Filologia, in Id., Il mare colore del vino, Einaudi, Torino 1973, pp. 88-96, in particolare pp. 94-95.
1. Lâoggetto del contendere
7 marzo 2013. Vengono rinviati a giudizio a Palermo quattro boss di Cosa Nostra, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino CinĂ ; tre alti ufficiali dei carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno; Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, giĂ sindaco democristiano di Palermo; il senatore Marcello DellâUtri, co-fondatore di Forza Italia, top manager nelle aziende di Silvio Berlusconi; e lâex ministro democristiano Nicola Mancino. SarĂ giudicato anche, ma autonomamente (ha chiesto il rito abbreviato), lâaltro ex ministro Dc Calogero Mannino.
Tutti costoro sono accusati di aver partecipato alla trattativa tra Stato e mafia, nel 1992-93. PerĂČ, di fatto, dovranno rispondere di «minaccia ad un Corpo politico dello Stato» (Mancino solo di falsa testimonianza), perchĂ© il reato di «trattativa» non esiste, come Ăš precisato nella Memoria con cui la procura (primo firmatario Antonio Ingroia) ha chiesto il loro rinvio a giudizio1. Il saggio di uno specialista come Giovanni Fiandaca, pubblicato in questo stesso volume, spiega quanto in effetti sia difficile far rientrare un concetto del genere nella sfera del diritto penale2. PiĂč facile che rientri nella sfera storico-politica; e questo, forse, giustifica il tentativo di uno storico di dare un contributo interpretativo.
Diciamolo subito: Fiandaca e io non pensiamo che possano essere ignorate le differenze di finalitĂ e metodi tra processo penale e analisi storica, per non dire della difficoltĂ di inserire giudizi morali nellâuno e nellâaltra. Ă nondimeno un fatto che lâintricata questione della trattativa rimanda a tutti e tre questi piani: il penale, lo storico-politico, lâetico-politico. Lo fa riportandoci alle passioni del 1992-93, allorchĂ© una parte dâItalia si impegnĂČ nella moralizzazione della politica e particolarmente nella lotta alla mafia, confidĂČ nellâintervento salvifico della giustizia penale e invocĂČ una «seconda» Repubblica che la facesse finita coi misfatti della «prima» â per restare poi profondamente delusa dagli esiti della propria battaglia3.
Ignorando questa delusione, non si intenderebbe la stessa aggettivazione per cui, nella Memoria della procura, la trattativa Ăš qualificata come «scellerata», ed Ăš detto «deprecabile» ogni «seppure parziale cedimento dello Stato» allora verificatosi4. Non si intenderebbe nemmeno la convinzione che il corso della storia italiana sia stato determinato (deviato) da una molla nascosta, alla cui ricerca piĂč liberamente si Ăš dedicato Ingroia nel libro-intervista intitolato Io so5.
Ho riportato in epigrafe il brano di Pier Paolo Pasolini evocato in questo titolo. I giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che in Io so svolgono la parte degli intervistatori, cosĂŹ spiegano il richiamo: per andare «alla veritĂ dei fatti», per chiarire questo e gli altri misteri dâItalia, si puĂČ anche «prescindere dalle prove e dai processi»6. La formula fa sospettare che i due non abbiano riflettuto sul principio generale per cui nessuno puĂČ affermare una sua veritĂ a prescindere da prove documentarie e senza chiarire i processi cognitivi utilizzati. Avrebbero fatto meglio a sceglierne unâaltra: questa non rende giustizia allâintenzione dellâintervistato.
2. Lâaccusa
Per esporre i fatti voglio partire dal punto di vista dellâaccusa, dai due documenti sopra citati, il pubblicistico e il giudiziario7; i quali, a loro volta, partono da quel gennaio del 1992 in cui la Cassazione confermĂČ definitivamente la sentenza del maxiprocesso (1986-87), mettendo in crisi «la credenza dâimpunitĂ dei boss, condizione essenziale per la sopravvivenza dellâorganizzazione criminale»8.
La risposta fu tremenda. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che del maxiprocesso erano stati gli artefici, caddero nel maggio e nel luglio vittime di apocalittici attentati. GiĂ nel marzo era stato assassinato Salvo Lima, il deputato andreottiano considerato il trait dâunion tra mafia e politica «romana»; nel settembre stessa sorte toccĂČ a Ignazio Salvo, figura di grande rilievo a cavallo tra mafia, affari e politica. Sembra siano state progettate diverse altre rappresaglie contro quanti si mostravano incapaci di tutelare la mafia. Ingroia descrive come particolarmente «terrorizzato» Calogero Mannino, «allâepoca il piĂč potente uomo politico siciliano»9, che avrebbe riservatamente chiesto al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli di chiamare in causa il Ros â il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri costituito alla fine del 1990 â, di cui era comandante Subranni. Fatto sta che Guazzelli finĂŹ assassinato subito dopo. A quel punto Mori, che nel Ros dirigeva il reparto criminalitĂ organizzata, avviĂČ insieme al suo ufficiale De Donno una serie di colloqui con Vito Ciancimino, cui sarebbe stato chiesto (o che si sarebbe offerto) di fungere da intermediario per una trattativa con i boss Riina e Bernardo Provenzano (i tre erano nativi di Corleone, e notoriamente legati tra loro). I colloqui cominciarono dopo lâattentato di Capaci e proseguirono dopo quello di via dâAmelio: di qui lâidea, molto diffusa nellâopinione pubblica e avallata in Io so, che Borsellino sia stato ucciso perchĂ© era venuto a conoscenza della trattativa e perchĂ© si opponeva ad essa.
Massimo Ciancimino, figlio di Vito, ha consegnato agli inquirenti un testo in 12 punti, un cosiddetto papello, contenente a suo dire le richieste di Riina alle autoritĂ , che suo padre avrebbe passato a Mori nel corso dei colloqui. Sempre stando a Ciancimino jr., il padre avrebbe perĂČ giudicato troppo estremiste le richieste del boss, consigliando ai suoi interlocutori di rivolgersi al piĂč moderato Provenzano. SeguĂŹ, nel gennaio 1993, lâarresto di Riina ad opera proprio dagli uomini del Ros, che Ingroia vuole indirizzati da «âsoffiateâ provenienti dallâinterno di Cosa Nostra»10. Lâidea che ci sia stato uno scambio tra il Ros e la fazione mafiosa moderata, a scapito di quella estremista, Ăš rafforzata dalla mancata perquisizione dellâabitazione in cui il boss viveva con la famiglia. LĂŹ, si Ăš pensato, potevano trovarsi documenti che non si volevano portare allâattenzione della magistratura.
Nel papello edizione Massimo Ciancimino, comma secondo, troviamo la richiesta dellâabolizione del regime di carcerazione speciale dei detenuti particolarmente pericolosi, il 41 bis. Su questo punto «lo Stato», «debitore di Cosa Nostra»11 per la revoca della condanna a morte di Mannino e soci, si sarebbe accinto a fare concessioni. Su input del capo della polizia Vincenzo Parisi si sarebbero avviate le manovre per tagliare fuori dal governo gli elementi intransigenti: in campo democristiano il ministro degli Interni Vincenzo Scotti, in campo socialista il ministro di Grazia e giustizia Claudio Martelli. Nel giugno, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nominĂČ capo del governo Giuliano Amato, e Scotti fu sostituito da Mancino. Nel febbraio dellâanno seguente, subito dopo lâarresto di Riina, Martelli si dimise lasciando il posto a Giovanni Conso, proprio mentre Parisi si pronunciava contro sistemi troppo duri di detenzione. Fu sostituito anche NicolĂČ Amato, dirigente del Dipartimento dellâamministrazione penitenziaria (Dap)12.
Se la Memoria attribuisce a Scalfaro un «ruolo decisivo» in questi avvicendamenti, il libro-intervista concede: «Non siamo riusciti a verificare quale fosse il livello di consapevolezza di Scalfaro sui suggerimenti che gli venivano da Parisi», ma ugualmente conclude che «câĂš la sua mano in tante manovre necessarie allo svolgimento della trattativa»13. Nel novembre, a 334 mafiosi detenuti secondo il 41 bis la normativa non venne piĂč applicata. Se non che, a quella data si erano giĂ consumati i sanguinosi attentati terroristici di Firenze (maggio), Milano e Roma (luglio). La sentenza del tribunale di Firenze del giugno â98, la prima a parlare di trattativa, ha assunto questa sequenza come prova dellâeffetto tuttâaltro che moderatore della trattativa medesima: i boss ne avrebbero tratto, anzi, la convinzione «che la strage era idonea a portare vantaggi allâorganizzazione»14. Comunque la direttiva di Riina, «fai la guerra che poi viene la pace»15, fu seguita solo per un breve periodo ancora, perchĂ© gli irriducibili furono poi convinti da Provenzano ad adattarsi a unâopposta prospettiva.
Saremmo dunque davanti a due trattative, lâuna fallita (con Riina), lâaltra di successo (con Provenzano)16. Le complicazioni non finiscono qui. Riina e i suoi avrebbero perseguito due finalitĂ collegate ma di natura differente. Della prima â salvarsi dalla repressione â abbiamo detto. La seconda riguarderebbe il nuovo quadro politico generale da costruire dopo la caduta del muro di Berlino, di fronte al cataclisma di Tangentopoli, in modo da arrivare a «un nuovo patto di convivenza Stato-mafia», per realizzare la transizione «dalla Prima alla Seconda Repubblica». «In futuro â avrebbe spiegato Bagarella ai suoi â non dobbiamo piĂč correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle»17.
I mafiosi pensarono di mettere in atto unâoperazione simmetrica a quella leghista, e sponsorizzarono un gruppo separatista, «Sicilia libera», legato a un altro costituito dalla ândrangheta in Calabria. Questo risulta dellâinchiesta detta Sistemi criminali, promossa dalla procura della Repubblica palermitana nel 1996, che annovera tra gli inquisiti â al primo posto â Licio Gelli, il gran maestro della P2. Lâidea, infatti, Ăš che le convergenze sia...