1.
La macchina liberatoria
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Lâultimo anno del Novecento, vidi un annuncio in unâerboristeria di Brighton. Era rosa, incorniciato da una greca di cuori disegnati a mano, e annunciava sfrontatamente che qualsiasi sintomo, dal mal di testa al raffreddore alla rabbia o alla depressione, fosse attribuibile allâenergia rimasta bloccata di traumi avvenuti in passato, che la psicoterapia fisica poteva sciogliere e rimettere in circolo. Sapevo che era unâaffermazione a dir poco controversa, ma mi stuzzicava lâidea di concepire il corpo come un magazzino di angoscia emotiva. Fin da bambina avevo avuto la netta sensazione di trattenere qualcosa, di essermi ripiegata su unâinfelicitĂ misteriosa, di cui non riuscivo a individuare una causa precisa. Ero cosĂŹ rigida e tesa che scattavo come una trappola per topi appena qualcuno mi sfiorava. Qualcosa era rimasto bloccato e volevo, ansiosamente, liberarlo.
La terapista, Anna, esercitava in una stanzetta fumosa allâultimo piano di casa sua. Nellâangolo câera un lettino per massaggi dallâaria professionale, ma regnava unâatmosfera casalinga e leggermente sporca. Proliferavano i cuscini fru fru. La mia sedia era rivolta verso una libreria stipata di bambole e giocattoli di seconda mano, che aspettavano il momento di essere arruolati in una pantomima da Gestalt. A volte Anna prendeva uno scimmiotto sorridente e se lo stringeva al petto, parlando di sĂ© in terza persona, con una voce acuta e dalla pronuncia blesa. Non volevo stare al gioco, fingendo che sulla sedia vuota ci fosse un mio parente oppure colpendo un cuscino con una mazza da baseball. Ero troppo consapevole di me stessa, dolorosamente attenta a non rendermi ridicola, e per quanto le buffonate di Anna mi paressero mortificanti, capivo che lei incarnava una specie di libertĂ a me preclusa.
Alla prima occasione suggerivo di passare dalle parole al massaggio. Non dovevo svestirmi completamente. Anna indossava uno stetoscopio e maneggiava con delicatezza alcune parti del mio corpo, senza massaggiarle con decisione, ma dando piuttosto lâimpressione che ordinasse ai muscoli di distendersi. A intervalli regolari si chinava e ascoltava, la testina dello stetoscopio premuta sul mio stomaco. La maggior parte delle volte provavo una sensazione di energia che fluiva nel corpo, muovendosi attraverso lâaddome e scendendo nelle gambe, dove formicolava come tentacoli di medusa. Era una bella sensazione, non propriamente sessuale, ma come se unâostruzione persistente fosse stata rimossa. Non ne ho mai parlato e lei non mi ha mai fatto domande, perĂČ quello era uno dei motivi per cui ritornavo: sentire il mio corpo rianimato, vibrante.
Avevo ventidue anni quando cominciai a frequentare lo studio di Anna e il corpo era al centro dei miei interessi. Quando si parla di corpi, soprattutto nella cultura pop, spesso si affronta una serie di temi molto circoscritta, perlopiĂč legata alla loro apparenza o al loro mantenimento in salute. Il corpo inteso come un insieme di superfici dallâaspetto piĂč o meno gradevole. Il corpo perfetto, irraggiungibile, cosĂŹ splendente e levigato da risultare praticamente alieno. Come nutrirlo, come lucidarlo, lâinfinitĂ di modi costernanti in cui puĂČ rivelarsi inadatto o insufficiente. Ma lâelemento del corpo che piĂč mi interessava era lâesperienza di viverci dentro, di abitare un veicolo catastroficamente fragile, preda inaffidabile di piacere e dolore, odio e desiderio.
Ero cresciuta in una famiglia gay negli anni ottanta, sotto il giogo malevolo della sezione 28, una legge omofoba che vietava alle scuole di insegnare «lâammissibilitĂ dellâomosessualitĂ come presunta relazione familiare». Sapere che lo Stato teneva in tale considerazione la mia famiglia Ăš stata una lezione potente sulla posizione assegnata ai corpi in una scala di valori, su come le loro libertĂ siano garantite o limitate in base a attributi piĂč o meno ineluttabili, dal colore della pelle alla sessualitĂ . A ogni seduta terapeutica avvertivo il retaggio di quel periodo nel mio corpo sotto forma di nodi di vergogna e paura e rabbia difficili da esprimere, figuriamoci sciogliere.
La mia infanzia mi ha insegnato che il corpo Ăš un oggetto la cui libertĂ Ăš ridotta dal mondo, ma mi ha lasciato anche lâidea che il corpo sia una forza di liberazione a pieno titolo. Ho partecipato al mio primo Gay Pride a nove anni e la sensazione di tutti quei corpi in marcia su Westminster Bridge Ăš rimasta conficcata dentro di me, unâimpressione somatica mai provata prima. Mi sembrava ovvio che i corpi in strada avrebbero cambiato il mondo. Da adolescente, terrorizzata per lâimminente apocalisse del cambiamento climatico, cominciai a manifestare e mi inserii nel movimento di azione diretta ambientale al punto da abbandonare lâuniversitĂ per andare a vivere in una casa sullâalbero in una foresta del Dorset, che rischiava di essere abbattuta per costruire una strada.
Amavo vivere nei boschi, ma trasformare il mio corpo in uno strumento di resistenza era estenuante oltre che inebriante. La legge cambiava in continuazione. La regolamentazione era diventata piĂč aggressiva e molti miei conoscenti rischiavano lunghe pene detentive per lâintroduzione del crimine di invasione aggravata di proprietĂ privata. La libertĂ aveva un prezzo e mi sembrava che il prezzo fosse anche corporeo, la minaccia costante della perdita di libertĂ fisica. Come molti attivisti, ebbi un esaurimento nervoso. Nellâestate del 1998, seduta nel cimitero di Penzance, compilai il modulo dâiscrizione per la laurea in erboristeria. Quando cominciai a frequentare lo studio di Anna ero ormai al mio secondo anno.
Sebbene allâepoca non lo sapessi, Anna praticava una terapia inventata negli anni venti da Wilhelm Reich, uno degli intellettuali piĂč strani e preveggenti del Novecento, un uomo che dedicĂČ la sua vita a comprendere il legame controverso tra corpo e libertĂ . Per un periodo Reich fu il discepolo piĂč geniale di Freud (der beste Kopf, la mente migliore, della psicoanalisi). Quando era un giovane analista nella Vienna del primo dopoguerra, cominciĂČ a sospettare che molti pazienti portassero iscritte nel loro corpo le esperienze passate, immagazzinando il dolore emotivo in una sorta di tensione che lui paragonĂČ a unâarmatura. Nel decennio successivo, sviluppĂČ un nuovo sistema rivoluzionario di psicoterapia corporea, focalizzato sui comportamenti caratteristici adottati da ciascun paziente. «Ascoltava, osservava e poi toccava, stimolava e indagava» ricorderĂ in seguito il figlio Peter «seguendo un istinto straordinario che lo aiutava a capire dove, in un corpo, fossero stati congelati i ricordi, lâodio e la paura». Con grande sorpresa di Reich, questo rilascio emotivo si accompagnava spesso a una piacevole sensazione ondivaga che definiva flusso; indubbiamente la stessa sensazione che avevo provato sul lettino di Anna.
Molti pazienti viennesi di Reich erano proletari. Ascoltando le loro storie, Reich comprese che lo sconvolgimento psichico a cui assisteva non era dovuto soltanto alle esperienze infantili, ma a fattori sociali come povertĂ , precarietĂ abitativa, violenza domestica e disoccupazione. Evidentemente ciascun individuo era sottoposto a forze piĂč ampie, altrettanto problematiche del luogo di interesse privilegiato da Freud: il crogiolo della famiglia. Per nulla scoraggiato dalle grandi imprese, Reich trascorse il periodo interbellico provando a fondere due massimi sistemi di diagnosi e cura dellâinfelicitĂ umana, mettendo proficuamente in dialogo lâopera di Freud e di Marx, con gran fastidio dei seguaci di entrambi.
Il sesso aveva sempre avuto un ruolo centrale nella sua idea di libertĂ e nel 1930 Reich si trasferĂŹ a Berlino, una cittĂ al limite, racchiusa tra due calamitĂ , dove molte nuove idee sulla sessualitĂ fiorivano dalle macerie della guerra. Reich era convinto che liberare il sesso da secoli di repressione e vergogna avrebbe cambiato il mondo, ma le sue attivitĂ berlinesi si interruppero bruscamente quando Hitler salĂŹ al potere nella primavera del 1933. Quellâautunno, in esilio in Danimarca, scrisse Psicologia di massa del fascismo, unâanalisi avvincente del modo in cui Hitler aveva sfruttato ansie sessuali inconsce, tra cui la paura dellâinfezione e del contagio, per fomentare lâantisemitismo.
Lessi per la prima volta Reich con Individuo e Stato, un racconto delle sue esperienze politiche a Vienna e Berlino. Trovai una copia nel vecchio mercato domenicale che negli anni novanta prosperava nel parcheggio della stazione di Brighton, scegliendolo perchĂ© in inglese aveva lo stesso titolo, People in Trouble, di un romanzo che amavo. Era stato scritto negli anni cinquanta, ma combaciava alla perfezione con il mio ricordo di avvicinamento allâattivismo, con lâeccitamento e la frustrazione di provare a innescare un cambiamento politico. Reich non era uno scrittore talentuoso come Freud e le sue argomentazioni non erano altrettanto nitide o equilibrate. Spesso sembrava uno spaccone, a volte paranoico, ma la sua urgenza mi conquistĂČ. Pareva che scrivesse dal campo di battaglia, curvo sul quaderno, intento a tracciare possibilitĂ rischiosissime per ampliare le libertĂ nelle vite reali delle persone.
Le sue idee erano cosĂŹ in sintonia con la mia epoca che non capivo perchĂ© non avessi mai sentito parlare di lui, nĂ© nei circoli di protesta nĂ© allâuniversitĂ . Molto tempo dopo scoprii che Ăš poco discusso o rispettato perchĂ© gli eccessi della seconda parte della sua vita hanno oscurato la prima. Le idee incisive, radicali, sul sesso e sulla politica che aveva sviluppato in Europa prima della guerra sono rimaste praticamente sepolte sotto le teorie ben piĂč astruse sviluppate negli anni dellâesilio, che spaziano da concezioni pseudoscientifiche sulla malattia a un cannone spaziale per controllare il tempo atmosferico.
Quando Reich emigrĂČ in America nel 1939 non si affermĂČ come psicoanalista o attivista, ma come scienziato, seppur fieramente disinteressato al processo di peer review, il banco di prova di qualunque risultato scientifico. Poco dopo il suo arrivo, dichiarĂČ di aver scoperto lâenergia universale che anima la vita. La chiamĂČ orgone e, nel laboratorio della sua casa di New York, progettĂČ una macchina che ne convogliasse il potere curativo. Considerate le conseguenze che avrebbe avuto per il suo creatore, Ăš ironico che lo strumento di guarigione universale ideato da Reich fosse una cella di legno poco piĂč grande di una normale cabina telefonica, dove sedersi in solenne isolamento.
Reich credeva che lâaccumulatore orgonico avrebbe automatizzato lâopera di liberazione, ovviando al bisogno di una faticosa terapia faccia a faccia. Sperava inoltre che potesse curare le malattie, in particolare il cancro. Questâultima affermazione finĂŹ in un articolo, che diede origine a unâindagine sullâefficacia medica dellâaccumulatore orgonico durata quasi un decennio. Il 7 maggio 1956 Reich fu condannato a due anni di carcere per aver rifiutato di cessare la vendita della sua invenzione. La primavera seguente fu trasferito al Lewisburg Penitentiary in Pennsylvania.
Il tizio dellâorgone: era Reich! Non avevo collegato. Da adolescente ero infatuata di Burroughs e da giovane Burroughs era ossessionato da Reich. Le sue lettere degli anni quaranta e cinquanta sono disseminate di riferimenti a Reich e alla sua scatola orgonica. Il bagliore bluastro dellâenergia orgonica, il «ronzio vibrante, senza suoni, di una fitta foresta» e di accumulatori orgonici ammanta lâatmosfera dei suoi libri, contribuendo al loro brivido apocalittico, «il messaggio orgasmico ricevuto e poi trasmesso». Come molte personalitĂ della controcultura, Burroughs costruĂŹ il proprio accumulatore orgonico. In effetti, la prima volta che ne vidi uno fu quando nel 1993 Kurt Cobain provĂČ lâarrugginito accumulatore da giardino di Burroughs in Kansas. La fotografia lo ritrae mentre saluta da un oblĂČ nella porta: un astronauta malinconico e incapace di volare, immortalato sei mesi prima del suicidio. Quella fotografia, ogni volta che la guardavo, mi sembrava condannare retroattivamente Reich come inguaribile impostore.
* * *
Fu soltanto nel disperato 2016 che mi rivolsi nuovamente a Reich. Negli anni precedenti, il corpo era tornato un campo di battaglia. In particolare due nodi erano arrivati al pettine: la crisi dei rifugiati e il movimento Black Lives Matter. Rifugiati provenienti da regioni geograficamente devastate raggiungevano lâEuropa viaggiando su barche pericolanti, mentre altri li accusavano di essere parassiti e malviventi e si auguravano che annegassero. I sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo finivano rinchiusi in campi da cui rischiavano di non uscire mai. La presenza di questi corpi disperati era sfruttata dallâestrema destra per guadagnare potere in Europa, mentre in Gran Bretagna diventava uno strumento della campagna allarmista pro-Brexit.
Nel frattempo, nel 2013, in America era emerso il movimento Black Lives Matter in risposta allâassoluzione dellâassassino di Trayvon Martin, un adolescente nero disarmato ucciso da un uomo bianco. Negli anni seguenti Black Lives Matter continuĂČ a protestare contro i ripetuti omicidi di uomini, donne e bambini afroamericani avvenuti per mano della polizia: ammazzati mentre vendevano sigarette, giocavano con una pistola giocattolo, cercavano la patente, dormivano nel loro letto. Pareva che le proteste di Ferguson, Los Angeles, New York, Oakland, Baltimora e del resto del paese avrebbero potuto innescare un cambiamento, ma lâ8 novembre 2016 un numero sufficiente di persone votĂČ Donald Trump, un suprematista bianco malcelato, eleggendolo a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti dâAmerica.
La brutta, vecchia notizia della discriminazione fisica era ovunque. Giornalisti e politici usavano parole ed espressioni impensabili soltanto il decennio precedente, in paesi che fino a poco prima erano parsi baluardi della democrazia liberale. Il diritto allâaborto era ridotto o addirittura revocato in diversi stati americani, benchĂ© fosse stato legalizzato in Irlanda. In Cecenia gli uomini gay venivano rinchiusi in campi di concentramento in una cosiddetta «retata profilattica», come fu eufemisticamente descritta. Il diritto ad amare, migrare, riunirsi in protesta, riprodursi o rifiutare di riprodursi era aspramente contestato, quasi come allâepoca di Reich.
Sembrava che i grandi movimenti di liberazione novecenteschi stessero fallendo: le conquiste del femminismo, del movimento di liberazione omosessuale e dei diritti civili venivano smantellate una a una, se mai erano state davvero garantite. Alcune battaglie avevano fatto parte della mia infanzia, ma non mi aveva mai sfiorato il pensiero che il loro progresso lento e doloroso potesse essere sovvertito cosĂŹ rapidamente. Tutte erano accomunate dal desiderio di trasformare il corpo, da oggetto di vergogna e stigma, in una fonte di forza e solidarietĂ capace di esigere e attuare un cambiamento.
Reich si era conce...