Everybody
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Un libro sui corpi e sulla libertà

Olivia Laing, Alessandra Castellazzi

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Un libro sui corpi e sulla libertà

Olivia Laing, Alessandra Castellazzi

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Tutto è corpo, il corpo è tutto. Il corpo ci rende potenti e vitali, ci umilia e ci offende. Il corpo è una vittima. Il corpo è un oppressore. Il corpo è violato, straziato, ucciso. Il corpo è arma di protesta, strumento di piacere. Il corpo nasce, soffre, gode, muore. Il corpo è vulnerabile; ma la vulnerabilità del corpo è una forza di liberazione.Olivia Laing ha capito di essere corpo innumerevoli volte nel corso della sua vita: ogni volta che è scesa in piazza a manifestare, in ogni rapporto sessuale, ogni volta che ha temuto per la sua incolumità. Soprattutto, però, lo ha capito grazie alla scrittura: Everybody è un viaggio personale, letterario e politico attraverso i corpi, nell'incontro e confronto con chi prima di lei e accanto a lei ne ha subito i limiti e sperimentato le possibilità, da Susan Sontag a Nina Simone, dall'arte femminista di Ana Mendieta alle perversioni del marchese de Sade, fino alle proteste di Black Lives Matter. Quella di Olivia Laing è una grande narrazione collettiva sul corpo come motore di unione e trasformazione: perché è solo nel corpo, e con il corpo, che esiste sulla Terra il mutamento.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2022
ISBN
9791259810298

1.
La macchina liberatoria

L’ultimo anno del Novecento, vidi un annuncio in un’erboristeria di Brighton. Era rosa, incorniciato da una greca di cuori disegnati a mano, e annunciava sfrontatamente che qualsiasi sintomo, dal mal di testa al raffreddore alla rabbia o alla depressione, fosse attribuibile all’energia rimasta bloccata di traumi avvenuti in passato, che la psicoterapia fisica poteva sciogliere e rimettere in circolo. Sapevo che era un’affermazione a dir poco controversa, ma mi stuzzicava l’idea di concepire il corpo come un magazzino di angoscia emotiva. Fin da bambina avevo avuto la netta sensazione di trattenere qualcosa, di essermi ripiegata su un’infelicità misteriosa, di cui non riuscivo a individuare una causa precisa. Ero così rigida e tesa che scattavo come una trappola per topi appena qualcuno mi sfiorava. Qualcosa era rimasto bloccato e volevo, ansiosamente, liberarlo.
La terapista, Anna, esercitava in una stanzetta fumosa all’ultimo piano di casa sua. Nell’angolo c’era un lettino per massaggi dall’aria professionale, ma regnava un’atmosfera casalinga e leggermente sporca. Proliferavano i cuscini fru fru. La mia sedia era rivolta verso una libreria stipata di bambole e giocattoli di seconda mano, che aspettavano il momento di essere arruolati in una pantomima da Gestalt. A volte Anna prendeva uno scimmiotto sorridente e se lo stringeva al petto, parlando di sé in terza persona, con una voce acuta e dalla pronuncia blesa. Non volevo stare al gioco, fingendo che sulla sedia vuota ci fosse un mio parente oppure colpendo un cuscino con una mazza da baseball. Ero troppo consapevole di me stessa, dolorosamente attenta a non rendermi ridicola, e per quanto le buffonate di Anna mi paressero mortificanti, capivo che lei incarnava una specie di libertà a me preclusa.
Alla prima occasione suggerivo di passare dalle parole al massaggio. Non dovevo svestirmi completamente. Anna indossava uno stetoscopio e maneggiava con delicatezza alcune parti del mio corpo, senza massaggiarle con decisione, ma dando piuttosto l’impressione che ordinasse ai muscoli di distendersi. A intervalli regolari si chinava e ascoltava, la testina dello stetoscopio premuta sul mio stomaco. La maggior parte delle volte provavo una sensazione di energia che fluiva nel corpo, muovendosi attraverso l’addome e scendendo nelle gambe, dove formicolava come tentacoli di medusa. Era una bella sensazione, non propriamente sessuale, ma come se un’ostruzione persistente fosse stata rimossa. Non ne ho mai parlato e lei non mi ha mai fatto domande, però quello era uno dei motivi per cui ritornavo: sentire il mio corpo rianimato, vibrante.
Avevo ventidue anni quando cominciai a frequentare lo studio di Anna e il corpo era al centro dei miei interessi. Quando si parla di corpi, soprattutto nella cultura pop, spesso si affronta una serie di temi molto circoscritta, perlopiù legata alla loro apparenza o al loro mantenimento in salute. Il corpo inteso come un insieme di superfici dall’aspetto più o meno gradevole. Il corpo perfetto, irraggiungibile, così splendente e levigato da risultare praticamente alieno. Come nutrirlo, come lucidarlo, l’infinità di modi costernanti in cui può rivelarsi inadatto o insufficiente. Ma l’elemento del corpo che più mi interessava era l’esperienza di viverci dentro, di abitare un veicolo catastroficamente fragile, preda inaffidabile di piacere e dolore, odio e desiderio.
Ero cresciuta in una famiglia gay negli anni ottanta, sotto il giogo malevolo della sezione 28, una legge omofoba che vietava alle scuole di insegnare «l’ammissibilità dell’omosessualità come presunta relazione familiare». Sapere che lo Stato teneva in tale considerazione la mia famiglia è stata una lezione potente sulla posizione assegnata ai corpi in una scala di valori, su come le loro libertà siano garantite o limitate in base a attributi più o meno ineluttabili, dal colore della pelle alla sessualità. A ogni seduta terapeutica avvertivo il retaggio di quel periodo nel mio corpo sotto forma di nodi di vergogna e paura e rabbia difficili da esprimere, figuriamoci sciogliere.
La mia infanzia mi ha insegnato che il corpo è un oggetto la cui libertà è ridotta dal mondo, ma mi ha lasciato anche l’idea che il corpo sia una forza di liberazione a pieno titolo. Ho partecipato al mio primo Gay Pride a nove anni e la sensazione di tutti quei corpi in marcia su Westminster Bridge è rimasta conficcata dentro di me, un’impressione somatica mai provata prima. Mi sembrava ovvio che i corpi in strada avrebbero cambiato il mondo. Da adolescente, terrorizzata per l’imminente apocalisse del cambiamento climatico, cominciai a manifestare e mi inserii nel movimento di azione diretta ambientale al punto da abbandonare l’università per andare a vivere in una casa sull’albero in una foresta del Dorset, che rischiava di essere abbattuta per costruire una strada.
Amavo vivere nei boschi, ma trasformare il mio corpo in uno strumento di resistenza era estenuante oltre che inebriante. La legge cambiava in continuazione. La regolamentazione era diventata più aggressiva e molti miei conoscenti rischiavano lunghe pene detentive per l’introduzione del crimine di invasione aggravata di proprietà privata. La libertà aveva un prezzo e mi sembrava che il prezzo fosse anche corporeo, la minaccia costante della perdita di libertà fisica. Come molti attivisti, ebbi un esaurimento nervoso. Nell’estate del 1998, seduta nel cimitero di Penzance, compilai il modulo d’iscrizione per la laurea in erboristeria. Quando cominciai a frequentare lo studio di Anna ero ormai al mio secondo anno.
Sebbene all’epoca non lo sapessi, Anna praticava una terapia inventata negli anni venti da Wilhelm Reich, uno degli intellettuali più strani e preveggenti del Novecento, un uomo che dedicò la sua vita a comprendere il legame controverso tra corpo e libertà. Per un periodo Reich fu il discepolo più geniale di Freud (der beste Kopf, la mente migliore, della psicoanalisi). Quando era un giovane analista nella Vienna del primo dopoguerra, cominciò a sospettare che molti pazienti portassero iscritte nel loro corpo le esperienze passate, immagazzinando il dolore emotivo in una sorta di tensione che lui paragonò a un’armatura. Nel decennio successivo, sviluppò un nuovo sistema rivoluzionario di psicoterapia corporea, focalizzato sui comportamenti caratteristici adottati da ciascun paziente. «Ascoltava, osservava e poi toccava, stimolava e indagava» ricorderà in seguito il figlio Peter «seguendo un istinto straordinario che lo aiutava a capire dove, in un corpo, fossero stati congelati i ricordi, l’odio e la paura». Con grande sorpresa di Reich, questo rilascio emotivo si accompagnava spesso a una piacevole sensazione ondivaga che definiva flusso; indubbiamente la stessa sensazione che avevo provato sul lettino di Anna.
Molti pazienti viennesi di Reich erano proletari. Ascoltando le loro storie, Reich comprese che lo sconvolgimento psichico a cui assisteva non era dovuto soltanto alle esperienze infantili, ma a fattori sociali come povertà, precarietà abitativa, violenza domestica e disoccupazione. Evidentemente ciascun individuo era sottoposto a forze più ampie, altrettanto problematiche del luogo di interesse privilegiato da Freud: il crogiolo della famiglia. Per nulla scoraggiato dalle grandi imprese, Reich trascorse il periodo interbellico provando a fondere due massimi sistemi di diagnosi e cura dell’infelicità umana, mettendo proficuamente in dialogo l’opera di Freud e di Marx, con gran fastidio dei seguaci di entrambi.
Il sesso aveva sempre avuto un ruolo centrale nella sua idea di libertà e nel 1930 Reich si trasferì a Berlino, una città al limite, racchiusa tra due calamità, dove molte nuove idee sulla sessualità fiorivano dalle macerie della guerra. Reich era convinto che liberare il sesso da secoli di repressione e vergogna avrebbe cambiato il mondo, ma le sue attività berlinesi si interruppero bruscamente quando Hitler salì al potere nella primavera del 1933. Quell’autunno, in esilio in Danimarca, scrisse Psicologia di massa del fascismo, un’analisi avvincente del modo in cui Hitler aveva sfruttato ansie sessuali inconsce, tra cui la paura dell’infezione e del contagio, per fomentare l’antisemitismo.
Lessi per la prima volta Reich con Individuo e Stato, un racconto delle sue esperienze politiche a Vienna e Berlino. Trovai una copia nel vecchio mercato domenicale che negli anni novanta prosperava nel parcheggio della stazione di Brighton, scegliendolo perché in inglese aveva lo stesso titolo, People in Trouble, di un romanzo che amavo. Era stato scritto negli anni cinquanta, ma combaciava alla perfezione con il mio ricordo di avvicinamento all’attivismo, con l’eccitamento e la frustrazione di provare a innescare un cambiamento politico. Reich non era uno scrittore talentuoso come Freud e le sue argomentazioni non erano altrettanto nitide o equilibrate. Spesso sembrava uno spaccone, a volte paranoico, ma la sua urgenza mi conquistò. Pareva che scrivesse dal campo di battaglia, curvo sul quaderno, intento a tracciare possibilità rischiosissime per ampliare le libertà nelle vite reali delle persone.
Le sue idee erano così in sintonia con la mia epoca che non capivo perché non avessi mai sentito parlare di lui, né nei circoli di protesta né all’università. Molto tempo dopo scoprii che è poco discusso o rispettato perché gli eccessi della seconda parte della sua vita hanno oscurato la prima. Le idee incisive, radicali, sul sesso e sulla politica che aveva sviluppato in Europa prima della guerra sono rimaste praticamente sepolte sotto le teorie ben più astruse sviluppate negli anni dell’esilio, che spaziano da concezioni pseudoscientifiche sulla malattia a un cannone spaziale per controllare il tempo atmosferico.
Quando Reich emigrò in America nel 1939 non si affermò come psicoanalista o attivista, ma come scienziato, seppur fieramente disinteressato al processo di peer review, il banco di prova di qualunque risultato scientifico. Poco dopo il suo arrivo, dichiarò di aver scoperto l’energia universale che anima la vita. La chiamò orgone e, nel laboratorio della sua casa di New York, progettò una macchina che ne convogliasse il potere curativo. Considerate le conseguenze che avrebbe avuto per il suo creatore, è ironico che lo strumento di guarigione universale ideato da Reich fosse una cella di legno poco più grande di una normale cabina telefonica, dove sedersi in solenne isolamento.
Reich credeva che l’accumulatore orgonico avrebbe automatizzato l’opera di liberazione, ovviando al bisogno di una faticosa terapia faccia a faccia. Sperava inoltre che potesse curare le malattie, in particolare il cancro. Quest’ultima affermazione finì in un articolo, che diede origine a un’indagine sull’efficacia medica dell’accumulatore orgonico durata quasi un decennio. Il 7 maggio 1956 Reich fu condannato a due anni di carcere per aver rifiutato di cessare la vendita della sua invenzione. La primavera seguente fu trasferito al Lewisburg Penitentiary in Pennsylvania.
Il tizio dell’orgone: era Reich! Non avevo collegato. Da adolescente ero infatuata di Burroughs e da giovane Burroughs era ossessionato da Reich. Le sue lettere degli anni quaranta e cinquanta sono disseminate di riferimenti a Reich e alla sua scatola orgonica. Il bagliore bluastro dell’energia orgonica, il «ronzio vibrante, senza suoni, di una fitta foresta» e di accumulatori orgonici ammanta l’atmosfera dei suoi libri, contribuendo al loro brivido apocalittico, «il messaggio orgasmico ricevuto e poi trasmesso». Come molte personalità della controcultura, Burroughs costruì il proprio accumulatore orgonico. In effetti, la prima volta che ne vidi uno fu quando nel 1993 Kurt Cobain provò l’arrugginito accumulatore da giardino di Burroughs in Kansas. La fotografia lo ritrae mentre saluta da un oblò nella porta: un astronauta malinconico e incapace di volare, immortalato sei mesi prima del suicidio. Quella fotografia, ogni volta che la guardavo, mi sembrava condannare retroattivamente Reich come inguaribile impostore.
* * *
Fu soltanto nel disperato 2016 che mi rivolsi nuovamente a Reich. Negli anni precedenti, il corpo era tornato un campo di battaglia. In particolare due nodi erano arrivati al pettine: la crisi dei rifugiati e il movimento Black Lives Matter. Rifugiati provenienti da regioni geograficamente devastate raggiungevano l’Europa viaggiando su barche pericolanti, mentre altri li accusavano di essere parassiti e malviventi e si auguravano che annegassero. I sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo finivano rinchiusi in campi da cui rischiavano di non uscire mai. La presenza di questi corpi disperati era sfruttata dall’estrema destra per guadagnare potere in Europa, mentre in Gran Bretagna diventava uno strumento della campagna allarmista pro-Brexit.
Nel frattempo, nel 2013, in America era emerso il movimento Black Lives Matter in risposta all’assoluzione dell’assassino di Trayvon Martin, un adolescente nero disarmato ucciso da un uomo bianco. Negli anni seguenti Black Lives Matter continuò a protestare contro i ripetuti omicidi di uomini, donne e bambini afroamericani avvenuti per mano della polizia: ammazzati mentre vendevano sigarette, giocavano con una pistola giocattolo, cercavano la patente, dormivano nel loro letto. Pareva che le proteste di Ferguson, Los Angeles, New York, Oakland, Baltimora e del resto del paese avrebbero potuto innescare un cambiamento, ma l’8 novembre 2016 un numero sufficiente di persone votò Donald Trump, un suprematista bianco malcelato, eleggendolo a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America.
La brutta, vecchia notizia della discriminazione fisica era ovunque. Giornalisti e politici usavano parole ed espressioni impensabili soltanto il decennio precedente, in paesi che fino a poco prima erano parsi baluardi della democrazia liberale. Il diritto all’aborto era ridotto o addirittura revocato in diversi stati americani, benché fosse stato legalizzato in Irlanda. In Cecenia gli uomini gay venivano rinchiusi in campi di concentramento in una cosiddetta «retata profilattica», come fu eufemisticamente descritta. Il diritto ad amare, migrare, riunirsi in protesta, riprodursi o rifiutare di riprodursi era aspramente contestato, quasi come all’epoca di Reich.
Sembrava che i grandi movimenti di liberazione novecenteschi stessero fallendo: le conquiste del femminismo, del movimento di liberazione omosessuale e dei diritti civili venivano smantellate una a una, se mai erano state davvero garantite. Alcune battaglie avevano fatto parte della mia infanzia, ma non mi aveva mai sfiorato il pensiero che il loro progresso lento e doloroso potesse essere sovvertito così rapidamente. Tutte erano accomunate dal desiderio di trasformare il corpo, da oggetto di vergogna e stigma, in una fonte di forza e solidarietà capace di esigere e attuare un cambiamento.
Reich si era conce...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. 1. La macchina liberatoria
  4. 2. Indisposta
  5. 3. Atti sessuali
  6. 4. In pericolo
  7. 5. Una rete splendente
  8. 6. Celle
  9. 7. Blocco/Sciame
  10. 8. 22nd Century
  11. Note
  12. Bibliografia
  13. Ringraziamenti
  14. Elenco delle immagini
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APA 6 Citation

Laing, O. (2022). Everybody ([edition unavailable]). Il Saggiatore. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3517275/everybody-un-libro-sui-corpi-e-sulla-libert-pdf (Original work published 2022)

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Laing, Olivia. (2022) 2022. Everybody. [Edition unavailable]. Il Saggiatore. https://www.perlego.com/book/3517275/everybody-un-libro-sui-corpi-e-sulla-libert-pdf.

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Laing, O. (2022) Everybody. [edition unavailable]. Il Saggiatore. Available at: https://www.perlego.com/book/3517275/everybody-un-libro-sui-corpi-e-sulla-libert-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Laing, Olivia. Everybody. [edition unavailable]. Il Saggiatore, 2022. Web. 15 Oct. 2022.