DUE FATTI DI CRONACA NERA
Furono due fatti di cronaca nera l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (2 novembre 1975) e la strage compiuta pochi giorni dopo (13 novembre) a Vercelli da Doretta Graneris e dal suo fidanzato, Guido Badini.
Certo non due «comuni» fatti di cronaca nera. La grande personalità del poeta e regista, e le circostanze in cui fu ucciso (in uno spiazzo deserto a duecento metri dal mare, da un ragazzo di 17 anni che faceva la «vita»), destarono ovviamente grande scalpore, e diedero a quella morte una risonanza anche internazionale. Così come lo spaventoso bagno di sangue che vide come protagonista Doretta Graneris – una diciottenne che sterminò padre, madre, fratellino di 13 anni e i due nonni – non poteva che essere classificato come un crimine fuori dalla norma, e come tale passare alla storia.
Ma pur sempre di cronaca nera si trattava. Lo svolgimento dei fatti, ma soprattutto l’immediato arresto dei colpevoli e le loro confessioni avrebbero dovuto convincere tutti, e subito, che di «politico» non c’era nulla. Si poteva immaginare, sospettare che gli assassini, con le loro confessioni, cercassero ancora di nascondere qualche parte di verità: vuoi per attenuare le proprie responsabilità, vuoi per coprire qualche eventuale complice. Ma per scorgere una regia occulta e un movente politico, soprattutto nel caso Graneris, bisognava proprio mettercela tutta. Eppure, quello di Pasolini fu definito un «delitto politico», e quella di Doretta Graneris una «strage fascista»: in base a quali elementi, lo vedremo fra poco.
Alle cronache su estremisti e terroristi abbiamo aggiunto questi due episodi, che non hanno niente a che fare né con l’estremismo né con il terrorismo, nella convinzione di non essere andati fuori tema. L’appiccicare un’etichetta politica, ovviamente di stampo reazionario, anche a ciò che di politico non aveva alcunché, rientrava perfettamente nella logica di quegli anni, nella logica delle «sedicenti Brigate Rosse» e delle «provocazioni del potere».
L’omicidio Pasolini
Il cadavere – straziato, sfigurato – di Pier Paolo Pasolini fu trovato all’alba del 2 novembre 1975, da una donna, su uno spiazzo dell’idroscalo di Ostia, a trenta chilometri da Roma, in una zona semideserta, su cui sorgono squallide casupole abusive. Lo scrittore era stato colpito con una serie di bastonate; poi, l’assassino era passato sopra di lui con l’automobile, schiacciandolo.
Il giallo fu di brevissima durata: poche ore dopo il delitto i carabinieri arrestarono Giuseppe Pelosi, 17 anni e quattro mesi, un ragazzo della Tiburtina, così uguale a quei disperati giovani di borgata tante volte descritti da Pasolini nei suoi scritti e nei suoi film. Pelosi si fece beccare mentre sfrecciava contromano, a 180 all’ora, sul lungomare Duilio di Ostia con l’Alfa GT della sua vittima. Il ritrovamento, a fianco del cadavere di Pasolini, di un anello d’oro di Pelosi chiuse il cerchio.
Pelosi non poté far altro che confessare. Disse di essere stato «abbordato» da Pasolini la sera del 1° novembre davanti alla stazione Termini, e di essere poi andato con lo scrittore prima al ristorante e poi sul lungomare di Ostia. Questa la sua versione, da lui confermata poi ai processi:
«Durante il viaggio mi toccava la gamba. “Stai buono – mi disse –, ti darò ventimila lire”. Non avevo un soldo e così lo lasciai fare. Al ristorante sperai di essermela cavata con quella sola “prestazione”, ma mi sbagliavo.
«Arrivati all’idroscalo di Ostia tentò di spogliarmì. Scendemmo e lui tornò alla carica. Scappai, caddi e lui mi fu addosso, iniziò a picchiarmi. Riuscii a rialzarmi e gli sferrai due calci e delle ginocchiate. Lui strillava “ti ammazzo” e io gli diedi due calci ai testicoli.
«Presi da terra una tavoletta di legno e gliela spaccai in testa. Continuai a colpirlo, anche con un bastone. Cadde a terra e rantolò. Ne approfittai per raggiungere l’auto, salire e partire in preda al panico.
«Lungo il percorso non mi accorsi che le ruote della macchina passavano sul corpo dell’uomo che giaceva a terra».
Al processo di primo grado (conclusosi il 26 aprile 1976) il tribunale dei minori, presieduto da Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo Moro, condannò Pelosi a 9 anni, 7 mesi e un giorno. Il tribunale stabilì però che l’imputato aveva probabilmente agito «con il concorso di ignoti»: credette, quindi, che Pelosi aveva taciuto su qualche complicità.
Ma la sentenza d’appello, emessa il 4 dicembre 1976, oltre a diminuire la pena fino a 9 anni e un mese, stabiliva che Pelosi era l’unico responsabile dell’uccisione del poeta, definita «occasionale e non premeditata».
E il 12 luglio 1979 la Corte di Cassazione rese definitiva la sentenza d’appello e stabilì che Pelosi fu solo a uccidere Pier Paolo Pasolini. I giudici ritennero comunque falsa, in parte, la versione di Pelosi: secondo la suprema Corte il ragazzo aveva accettato, per denaro, di prostituirsi. Ma poi, arrivati sul posto, fu lui ad aggredire Pasolini, e non viceversa. Si legge infatti nella motivazione della sentenza della Cassazione:
«Lo scrittore non attuò alcun tentativo di violenta sottoposizione del giovane ai suoi desideri e cercò sostanzialmente di difendersi da un attacco, senza aver intenzione o possibilità di recare offesa, finché non fu raggiunto da calci al basso ventre che gli tolsero ogni capacità di reazione.
«Poi, caduto in ginocchio, fu ancora colpito alla testa e alla nuca, finché crollò esanime. Poco dopo il Pelosi, gettate lontano, tra i rifiuti, la camicia e le tavolette insanguinate, s’impossessò dell’auto di Pasolini, che diresse a fari accesi, senza deviazioni, sul corpo dello scrittore, schiacciandolo con le ruote di sinistra e voltando poi a destra per allontanarsi».
Questi dunque i fatti, almeno fin dove è stato possibile ricostruirli dai magistrati.
«Esiste un’altra versione...»
La prima a mettere in dubbio la confessione di Giuseppe Pelosi fu una delle più famose giornaliste e scrittrici italiane, Oriana Fallaci, con un articolo sull’Europeo del 14 novembre 1975, intitolato «Ucciso da due motociclisti?». Un «pezzo» diventato famoso proprio perché considerato l’inizio della campagna di controinformazione sul caso Pasolini.
Va però detto che Oriana Fallaci non parlò di «delitto politico», né adombrò alcun possibile complotto contro il poeta. Si limitò a mettere in dubbio il racconto di Pelosi; soprattutto, scrisse che forse il ragazzo non aveva agito da solo. Ma se c’era un ambiente in cui il delitto era maturato, questo non era quello della politica, scrisse la Fallaci, bensì quello della droga. Quell’ormai famoso articolo cominciava così:
«Esiste un’altra versione della morte di Pasolini: una versione di cui, probabilmente, la polizia è già a conoscenza ma di cui non parla per poter condurre più comodamente le indagini. Essa si basa sulle testimonianze che hanno da offrire alcuni abitanti o frequentatori delle baracche che sorgono intorno allo spiazzato dove Pier Paolo Pasolini venne ucciso. In particolare, si basa su ciò che venne visto e udito per circa mezz’ora da un romano che si trovava in una di quelle baracche per un convegno amoroso con una donna che non è sua moglie. Ecco ciò che egli non dice, almeno per ora, ma che avrebbe da dire.
«Pasolini – continuava il pezzo – non venne aggredito e ucciso soltanto da Giuseppe Pelosi ma da lui e da altri due teppisti, che sembrano assai conosciuti nel mondo della droga. I due teppisti erano giunti a bordo di una motocicletta dopo mezzanotte ed erano entrati insieme a Pasolini e al Pelosi in una baracca che lo scrittore era solito affittare per centomila lire ogni volta che vi si recava. Infatti non si tratta di baracche miserande come appare all’esterno: le assi esterne di legno fasciano villette vere e proprie, munite all’interno dei normali servizi igienici, di acqua corrente, a volte ben arredate e perfino con moquette. Le urla di un alterco violento cominciarono dopo qualche tempo che i quattro si trovavano dentro la baracca. A gridare “Porco, brutto porco” non era ...