Faceva freddissimo quando di notte uscirono dal razzo e Spender cominciò a raccogliere qualche secco sterpo marziano per accendere un fuocherello. Non si pronunciò su un possibile festeggiamento, si limitò a raccogliere i legnetti, appiccare il fuoco e guardarlo ardere.
Nel bagliore che illuminava l’aria sottile del prosciugato mare marziano, Spender si voltò per osservare alle sue spalle il razzo che li aveva portati fino a lì, lui, il capitano Wilder, Cheroke, Hathaway e Sam Parkhill. Avevano attraversato la silente oscurità cosmica per approdare a una terra morta e sognante.
Jeff Spender restò in attesa del baccano. Guardò gli altri uomini, si aspettava che si mettessero a zompettare tra urla di giubilo. Senza dubbio sarebbe successo non appena svanito lo stordimento di essere stati i “primi” ad arrivare su Marte. Non che ne avessero parlato, ma molti in cuor proprio speravano che magari le altre spedizioni fossero fallite, e che dunque quest’ultima, la Quarta, sarebbe stata quella buona. Non era per cattiveria, eppure continuavano a rimuginare sulla cosa, sognavano la gloria e gli allori, mentre i polmoni si andavano gradualmente abituando all’atmosfera rarefatta, che ti faceva sentire quasi sbronzo se ti muovevi troppo in fretta.
Biggs si avvicinò al fuoco appena acceso e disse: «Perché non utilizziamo il fuoco chimico del razzo invece dei legnetti?».
«Lascia stare» rispose Spender senza nemmeno sollevare lo sguardo.
Sarebbe stato inappropriato in quella prima notte su Marte fare troppo chiasso, o tirar fuori uno strano aggeggio luminoso come un fornelletto. Rischiava di apparire blasfemo e fuori luogo. Ci avrebbero pensato poi. Avevano tutto il tempo del mondo per gettare le lattine vuote di latte condensato nei nobili canali di Marte, per vedere copie del «New York Times» svolazzare come turbini sulle grigie distese di aridi fondali marini, o per abbandonare bucce di banane e cartocci bisunti di un picnic tra le raffinate rovine delle antiche città marziane in fondo alla vallata. Sì, c’era tutto il tempo del mondo. Spender ebbe un lieve fremito al solo pensiero.
Attizzò il fuoco con la mano, come un’offerta votiva a un gigante defunto. Erano atterrati su un’immensa tomba. Lì si era estinta una civiltà. Era un semplice gesto di riguardo attenersi a un minimo di discrezione in quella prima nottata.
«Me la immaginavo un po’ diversa una festa» disse Biggs al capitano Wilder. «Capitano, pensavo che ci avremmo dato dentro con le razioni di gin e carne… insomma, mi aspettavo un po’ di baldoria.»
Il capitano Wilder scrutò in lontananza la città morta.
«Siamo tutti stremati» disse con tono distante, come se la sua attenzione fosse rivolta soltanto alla città e non ai suoi uomini. «Magari domani sera. Per oggi riteniamoci soddisfatti di essere arrivati fin qui senza incappare in una meteora e senza perdite tra i membri dell’equipaggio.»
Gli uomini si sparpagliarono. Erano una ventina, si aggiustavano la cintura, tenevano una mano appoggiata alla spalla del vicino. Spender li osservava. Non erano contenti. Avevano rischiato la vita per una grande impresa. Ora si aspettavano di sbronzarsi, sparare colpi in aria, tanto per far vedere quanto erano stati bravi a bucare lo spazio e condurre un razzo fin su Marte.
Ma nessuno si scalmanava.
Il capitano impartì sommessamente un ordine. Uno degli uomini si precipitò a bordo per andare a prendere del cibo in scatola che fu aperto e distribuito senza tanto clamore. Cominciarono le chiacchiere. Il capitano si mise a sedere e rievocò il viaggio ad alta voce. Sapevano tutti come era andata, ma comunque era bello star lì ad ascoltare, quasi fosse un affare portato a termine e messo al sicuro. Non avevano voglia di parlare del viaggio di ritorno. Qualcuno aveva sollevato l’argomento ma era stato messo a tacere. Danzavano i cucchiai nel chiarore delle due lune, il cibo era buono, il vino anche meglio.
Il cielo fu squarciato da una fiamma e dopo un attimo atterrò anche il razzo ausiliario, appena fuori dal campo. Spender osservò il portello che si apriva per far scendere Hathaway, il medico-geologo: tutti gli uomini dell’equipaggio avevano una doppia specializzazione per risparmiare spazio a bordo. Hathaway si avvicinò lentamente al capitano.
«Allora?» domandò Wilder.
Hathaway lanciò uno sguardo alle città lontane che luccicavano sotto la luce delle stelle. Deglutì e mise a fuoco meglio: «Quella città, capitano, è morta, ed è morta da migliaia di anni. Lo stesso vale per quelle tre città collinari. Invece, ce n’è una quinta, a più di trecento chilometri di distanza…».
«Sì?»
«Be’, ci abitava della gente la scorsa settimana, capitano.»
Spender si rizzò in piedi.
«Marziani» disse Hathaway.
«E ora dove sono?»
«Morti» rispose Hathaway. «Sono entrato in una casa, credevo fosse morta da secoli, come tutte le altre case, e le altre cittadine. Invece, Dio Santo! C’erano dei cadaveri. È stato come camminare su un cumulo di foglie autunnali. O come tra rami e giornali bruciati. Cadaveri freschi. Erano morti da dieci giorni e rimasti all’aria.»
«Sei andato in perlustrazione nelle altre città? Hai incontrato qualche essere vivente?»
«No, niente. Perciò ho proseguito nell’indagine. Quattro città su cinque erano deserte da migliaia di anni. Non ho la più pallida idea di cosa sia successo ai loro abitanti. Ma la quinta città conteneva sempre la stessa cosa. Cadaveri. Migliaia di cadaveri.»
«Come sono morti?» Spender si fece avanti.
«C’è dell’incredibile.»
«Cosa li ha uccisi?»
«La varicella» rispose semplicemente Hathaway.
«Oddio, no!»
«Eh sì, ho fatto dei test. Varicella. Sui marziani ha avuto conseguenze mai registrate su noi terrestri. Il loro metabolismo reagisce in maniera differente, presumo. È come se li avesse carbonizzati, essiccati, ridotti in mucchietti di fuliggine. Banale varicella. Il capitano York, il capitano Williams e il capitano Black, tutti e tre, devono essere arrivati su Marte, ma chissà che fine hanno fatto. Però sappiamo cosa hanno fatto loro ai marziani, per quanto involontariamente.»
«Non hai visto altri segni di vita?»
«Esiste la possibilità che qualche marziano più scaltro degli altri sia riuscito a rifugiarsi sulle montagne. Ma sono pronto a scommettere che siano ben pochi per rappresentare un eventuale problema. Questo pianeta è morto.»
Spender si girò e andò a sedersi vicino al fuoco fissando la fiamma.
La varicella! Per Dio! Chi l’avrebbe mai detto! Una razza ci mette un milione di anni a evolversi, a progredire, a costruire città complesse, fa tutto il possibile per guadagnarsi rispetto e bellezza e poi muore. Una parte muore lentamente, coi suoi tempi, prima del nostro avvento, in maniera dignitosa. Ma il resto! È forse morto a causa di una malattia dal nome atroce, angosciante, spaventoso? No! Per carità di Dio, è crepato di varicella, una malattia infantile, un morbo che sulla Terra non è nemmeno in grado di uccidere un bambino! Non è giusto. È come se gli antichi greci fossero morti di orecchioni, o se gli antichi romani, forti e valorosi, fossero stramazzati sui sette colli per colpa delle vesciche ai piedi. Perché non abbiamo lasciato il tempo ai marziani di indossare le loro vesti funebri, adagiarsi decorosamente, escogitare una diversa ragione di morte? Non può essere una cosa stupida e volgare come la varicella. È in conflitto con la loro architettura, con il loro mondo!
«Bene, Hathaway, serviti pure da mangiare.»
«Grazie, capitano.»
E la questione fu dimenticata in fretta. Gli uomini tornarono a parlottare.
Spender non riusciva a staccar loro gli occhi di dosso. Non gli importava più del cibo che aveva nel piatto. Gli sembrò che la terra cominciasse a farsi più fredda. Le stelle più vicine, più limpide.
Appena qualcuno alzava il tono, il capitano replicava a bassa voce in modo tale da farlo acquietare per puro spirito di emulazione.
C’era un odore fresco, pulito nell’aria. Spender restò seduto a lungo godendosi la sua essenza. Erano tante le cose che non riusciva a distinguere chiaramente: fiori, agenti chimici, polveri, venti.
«Poi c’è stata quella volta a New York quando mi sono rimorchiato quella bionda, com’è che si chiamava? Ginnie!» gridò Biggs. «Sì, ecco.»
Spender era teso. Gli tremava la mano. Gli occhi nervosi dietro le palpebre sottili.
«E Ginnie mi ha detto…» continuò a schiamazzare Biggs.
Gli uomini esultarono fragorosamente.
«E così le ho dato un ceffone» gridò Biggs con la bottiglia in mano.
Spender posò il piatto. Ascoltò il gelido sussurro del vento. Osservò il ghiaccio dei bianchi edifici marziani oltre gli aridi fondali marini.
«Che donna, ragazzi!» Biggs tracannò la bottiglia con la sua bocca enorme. «Devo dire che tra tutte…»
Il corpo sudaticcio di Biggs sparse i suoi effluvi nell’aria. Spender lasciò morire il fuoco. «Ehi, dagli una bottarella, Spender!» disse Biggs, lanciandogli un’occhiata, prima di tornare alla bottiglia. «Vabbè, insomma, una notte io e Ginnie…»
Un uomo chiamato Schoenke tirò fuori la fisarmonica e accennò due passi di danza, sgambettando tra le nuvolette di polvere.
«Uh-uh! Viva la vita!»
«Yeah!» schiamazzarono gli altri in coro. Buttarono a terra i piatti vuoti. In tre si misero in fila, poi alzarono la gamba come delle soubrette sganasciandosi dalle risate. Gli altri smaniavano e battevano le mani a tempo. Cheroke si tolse la camicia e restò a torso nudo, poi prese a piroettare su se stesso sudando come un matto. Sul suo cranio rasato e sulle guance appena sbarbate da ragazzino risplendeva il chiaro di luna.
Il vento batteva sul fondale marino agitando deboli vapori e dalle montagne grandi volti di pietra osservavano il razzo argenteo e il piccolo falò.
Il chiasso si fece più intenso, altri uomini si unirono ai balli, qualcuno soffiava dentro un’armonica, qualcun altro su un pettine rivestito di carta velina. Furono aperte e scolate altre venti bottiglie. Biggs si reggeva in piedi a stento ma con le braccia cercava di coordinare i movimenti dei danzatori.
«Forza, capitano!» disse Cheroke biascicando una canzone.
Il capitano fu costretto...