Da dove sto chiamando
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Da dove sto chiamando

  1. 560 pagine
  2. Italian
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Da dove sto chiamando

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Informazioni sul libro

Da dove sto chiamando, l'«autoantologia» voluta da Carver nel 1988 poco prima della morte, presenta racconti appartenenti a tutto l'arco della sua produzione, da quelli del libro d'esordio Vuoi star zitta, per favore? ai sette «nuovi racconti» di Elephant, fino al conclusivo, sorprendente, omaggio cechoviano di L'incarico.
Trentasette capolavori per abbracciare, forse nel modo piú compiuto possibile, gli orizzonti narrativi che si richiamano da un punto all'altro dell'ormai leggendaria «Carver Country».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426166

Nuovi racconti

Scatole

Mia madre ha già sistemato tutto nelle scatole ed è pronta a traslocare. Ma domenica pomeriggio, all’ultimo minuto, ci telefona e ci invita a cena da lei. – Ho sbrinato il frigo, – mi spiega. – Devo cucinare questo pollo, prima che vada a male –. Dice pure che ci dovremo portare i piatti e le posate da casa. Lei ha già imballato le stoviglie e la maggior parte degli utensili di cucina. – Venite a mangiare con me per l’ultima volta, – dice. – Tu e Jill.
Riattacco e rimango un attimo fermo davanti alla finestra, cercando di capirci qualcosa. Ma non ci riesco. Cosí alla fine mi volto e dico a Jill: – Andiamo da mia madre per una cena d’addio.
Jill è seduta al tavolo e sfoglia il catalogo di Sears a caccia di tende. Però ha sentito. Fa una smorfia. – È proprio necessario? – mi dice. Fa un’orecchia alla pagina e chiude il catalogo. Sospira: – Dio santo, siamo stati a cena da lei due o tre volte solo quest’ultimo mese. Riuscirà mai ad andarsene sul serio?
Jill dice sempre quello che pensa. Ha trentacinque anni, porta i capelli corti e di mestiere fa la parrucchiera per cani. Prima di mettersi a fare questo lavoro, e lo fa volentieri, faceva la casalinga e la madre di famiglia. Poi è scoppiato un gran casino. I suoi due figli sono stati rapiti dal primo marito che li ha portati a vivere in Australia. Il secondo marito, che era sempre ubriaco, le ha lasciato per ricordo un timpano fracassato prima di sfondare un ponte e finire con tutta la macchina in fondo al fiume Elwha. Non aveva l’assicurazione sulla vita e neanche per la responsabilità civile. Jill ha dovuto prendere in prestito i soldi per il funerale e poi, pensate un po’ che roba, le è arrivato pure il conto della riparazione del ponte. In piú, aveva tutte le sue cure mediche da pagare. Ma adesso può raccontarla, questa storia. È riuscita a tornare a galla. Però di mia madre non ne può piú. Anch’io non ne posso piú, ma non vedo cosa posso fare.
– Se ne va dopodomani, – dico. – Senti, Jill, non è che devi farmi un favore, sai. Vuoi venirci con me o no? – Le dico che per me non fa nessuna differenza, se viene o non viene. Posso sempre dire che aveva l’emicrania. Non è mica la prima volta che m’invento una scusa.
– Vengo, vengo, – dice lei. E di colpo si alza e va nel bagno, dove le piace stare quando mette il broncio.
Stiamo insieme dallo scorso agosto, su per giú all’epoca in cui mia madre aveva deciso di trasferirsi qui a Longview dalla California. Jill ha cercato di far buon viso a cattivo gioco. Ma il fatto che mia madre sia arrivata in città proprio quando noi cercavamo di organizzare la nostra vita insieme non era una cosa che avevamo messo in conto. Jill diceva che le ricordava la situazione che aveva dovuto subire con la madre del primo marito. – Era soffocante, – mi aveva raccontato. – Capisci cosa voglio dire? Con lei attorno mi pareva sempre che mi mancasse l’aria.
D’altra parte, bisogna dire che mia madre considera Jill una specie di intrusa. Per lei, Jill non è che una delle tante donne apparse nella mia vita dopo che mia moglie mi ha piantato. Una donna che, per quel che ne sapeva lei, con ogni probabilità si sarebbe portata via affetto, attenzioni e forse anche un po’ di soldi che altrimenti sarebbero spettati a lei. Una donna degna di rispetto? Neanche per sogno. Ricordo benissimo – e come potrei dimenticarlo? – che aveva chiamato mia moglie puttana prima che ci sposassimo, e poi ancora puttana quindici anni dopo, quando mi piantò per un altro.
Sia Jill sia mia madre si comportano abbastanza bene quando si trovano insieme. Si abbracciano sempre quando si salutano. Parlano sempre di saldi e offerte speciali. Ma Jill trema all’idea di dover passare del tempo in compagnia di mia madre. Dice che mia madre la deprime da morire. Dice che ha un atteggiamento negativo su tutto e su tutti e dovrebbe cercarsi uno sfogo, come fanno altre persone della sua età. Non so, mettersi a lavorare all’uncinetto, oppure giocare a carte al centro anziani, andare in chiesa, qualsiasi cosa, insomma, basta che ci lasci in pace. Invece mia madre ha un sistema tutto suo per risolvere i problemi. Ci ha detto che se ne torna in California. Al diavolo tutto e tutti, in questa città. Che razza di posto! Non avrebbe continuato a vivere in questa città neanche se gliela regalavano con altre sei uguali!
Un paio di giorni dopo aver preso questa decisione, aveva già imballato tutte le sue cose negli scatoloni. Questo è successo lo scorso gennaio, o forse febbraio, non ricordo. Comunque, era d’inverno. Adesso siamo alla fine di giugno. Sono mesi che quelle scatole sono in giro dentro casa sua. Per andare da una stanza all’altra bisogna scavalcarle o girargli attorno. Non è vita per una donna anziana, questa, di chiunque sia madre.
Dopo un po’, dieci minuti o poco piú, Jill esce dal bagno. Intanto io ho trovato il mozzicone di uno spinello e cerco di fumarlo mentre bevo un ginger dalla bottiglia e osservo uno dei vicini che cambia l’olio alla macchina. Jill non mi guarda neanche. Invece va in cucina e mette dei piatti e delle posate in un sacchetto di carta. Però quando torna in soggiorno io mi alzo e ci abbracciamo. Jill mi fa: – Va tutto bene –. Mi chiedo cos’è che va bene. Per quel che mi riguarda, non va bene un bel niente. Ma lei si tiene stretta a me e mi dà dei colpetti sulle spalle. Sento il profumo dello shampoo per cani che ha addosso. Torna a casa dal lavoro piena di quella roba. Quell’odore è dappertutto. Perfino quando stiamo a letto insieme. Mi dà un’ultima pacca. Poi usciamo, prendiamo la macchina e attraversiamo la città per andare da mia madre.
Mi piace abitare qui. Appena arrivato non mi piaceva tanto. La sera non c’era niente da fare e mi sentivo solo. Poi ho incontrato Jill. Dopo un po’, qualche settimana, ha portato qui le sue cose e ha cominciato a vivere con me. Non che avessimo dei piani a lunga scadenza. Ma eravamo felici e vivevamo assieme. Ci dicevamo che finalmente avevamo avuto tutti e due un colpo di fortuna. Invece a mia madre non ne andava bene una. Cosí mi scrisse che aveva deciso di trasferirsi quassú. Io le risposi che non mi sembrava tanto una buona idea. D’inverno qui fa un tempo schifoso, le dissi. Stanno costruendo una prigione a poche miglia dalla città, le dissi. D’estate il posto è invaso dai turisti, certi ingorghi, le dissi. Ma lei fece come se non avesse mai ricevuto le mie lettere e si trasferí lo stesso. Poi, dopo che era stata in città poco meno d’un mese, mi disse che detestava questo posto. Si comportava come se fosse colpa mia che era venuta qui e che trovava tutto cosí sgradevole. Cominciò a tempestarmi di telefonate per dirmi quanto faceva schifo questo posto. – Sta cercando di farti venire i sensi di colpa, – diceva Jill. Si lamentava che gli autobus erano pessimi e gli autisti maleducati. Quanto alla gente del centro anziani – be’, lei non voleva passare la vita a giocare a carte. – Possono andare dritti all’inferno tutti quanti, – diceva, – e portarsi dietro le loro partite a carte –. I commessi del supermercato erano sgarbati, i meccanici della stazione di servizio se ne fregavano di lei e della macchina. E quanto al suo padrone di casa, Larry Hadlock, aveva deciso: Re Larry, come lo chiamava lei, «crede d’essere chissà chi solo perché affitta quelle quattro catapecchie e ha messo qualche soldo da parte. Quant’è vero Iddio, vorrei non averlo mai incontrato».
Quando arrivò qui, in agosto, faceva troppo caldo per lei, e a settembre erano cominciate le piogge. Per settimane, piovve quasi tutti i giorni. A ottobre cominciò a fare freddo. A novembre e dicembre nevicò. Ma lei s’era messa già da un pezzo a parlare male della città e della gente, al punto che non ne potevo piú di sentirla e alla fine glielo dissi pure. Allora era scoppiata a piangere e io avevo dovuto abbracciarla e pensavo che l’avrebbe piantata lí. Invece, dopo pochi giorni aveva ricominciato da capo, stessi piagnistei. Poco prima di Natale mi chiamò per capire quando sarei passato da lei con i regali. Non aveva fatto l’albero e neanche aveva intenzione di farlo, mi disse. Poi aggiunse qualcos’altro. Disse che se il tempo non migliorava si sarebbe ammazzata.
– Non dire sciocchezze, – le dissi.
– Sul serio, tesoro, – rispose. – Non voglio piú rivedere questo posto se non dalla bara. Lo odio, che Dio lo maledica. Non so chi me l’ha fatto fare, di trasferirmi qui. Vorrei solo morire e farla finita una buona volta.
Ricordo di essere rimasto col telefono in mano a osservare un tizio in cima a un palo che faceva qualcosa ai fili della corrente. La neve gli turbinava attorno alla testa. Mentre lo guardavo, si sporse dal palo, trattenuto soltanto dalla cintura di sicurezza. E se casca?, pensai. Non avevo la piú pallida idea di cos’altro dirle. Eppure dovevo dirle qualcosa. Ma avevo la testa piena di pensieri indegni, cose che nessun figlio si sognerebbe di ammettere. – Sei mia madre, no? – riuscii a dire alla fine. – Cosa posso fare per aiutarti?
– Tesoro, tu non puoi fare piú niente, – rispose lei. – L’occasione per fare qualcosa te la sei fatta scappare. Ormai è troppo tardi. Avrei tanto voluto trovarmi bene, in questo posto. Credevo che saremmo andati a fare delle gite e dei picnic insieme. E invece non è successo niente. Tu hai sempre da fare. Tu e Jill ve ne andate al lavoro e a casa non ci siete mai. Oppure se siete a casa, lasciate il telefono staccato tutto il giorno. Ad ogni modo, non ti vedo mai, – aggiunse.
– Ma dài, che non è vero, – dissi. E in effetti non era vero. Ma lei continuò come se non mi avesse neanche sentito. Magari non mi aveva sentito davvero.
– E poi, – continuò, – questo tempo mi farà morire. Fa troppo freddo qui. Perché non me l’hai detto che qui stavamo praticamente al Polo Nord? Se me l’avessi detto, non ci sarei mai venuta quassú. Tesoro, voglio tornarmene giú in California. Lí almeno posso uscire e andare da qualche parte. Qui non so dove andare. E poi giú in California c’è gente, amici che si preoccupano di quello che mi succede. Qui non gliene frega niente a nessuno. Be’, prego solo di reggere fino a giugno prossimo. Se ce la faccio, se resisto fino a giugno, me ne vado per sempre da questo posto. È la peggior città in cui abbia mai vissuto.
Che potevo rispondere? Non sapevo che dirle. Non potevo neanche mettermi a discutere del tempo. Il tempo era davvero un tasto dolente. Cosí ci salutammo e riattaccai.
C’è gente che d’estate va in vacanza; mia madre, invece, trasloca. Ha cominciato a traslocare anni fa, dopo che mio padre perse il posto. Quella volta, quando lo licenziarono, vendettero la casa, come se fosse la cosa piú giusta da fare, e si trasferirono dove pensavano che le cose sarebbero andate meglio. Ma le cose non erano affatto andate meglio neanche là. Allora si trasferirono un’altra volta. Continuarono cosí per un pezzo. Abitavano in case d’affitto, in appartamentini, camper, perfino in stanze di motel. Si trasferivano continuamente e a ogni trasloco i loro bagagli si facevano piú leggeri. Un paio di volte arrivarono in una città dove vivevo anch’io. Venivano ad abitare con me e mia moglie per un po’ e poi si trasferivano di nuovo. Sembravano le migrazioni degli animali, quelle, solo che non c’era uno schema preciso nei loro spostamenti. Andarono in giro per anni e anni, a volte uscendo perfino dallo Stato per raggiungere quelli che credevano pascoli piú verdi. Ma per lo piú tutti i loro spostamenti avvenivano all’interno della California settentrionale. Poi mio padre morí, e io pensai che mia madre l’avrebbe smessa di vagabondare e si sarebbe fermata nello stesso posto per un po’. Invece, niente: continuò a trasferirsi da un posto all’altro. Una volta le consigliai di rivolgersi a uno psichiatra. Gliel’avrei pagato io, le proposi perfino. Invece lei prese le sue cose e si trasferí di nuovo. Ero arrivato all’esasperazione, altrimenti non avrei detto quella cosa dello psichiatra.
Insomma, era sempre lí a imballare la sua roba oppure a tirarla fuori dalle scatole. Qualche volta faceva anche due o tre traslochi in un anno. Parlava sempre con astio del posto che stava per lasciare e con ottimismo di quello dove stava per andare. La posta le s’incasinava, gli assegni della pensione andavano sempre da qualche altra parte e lei passava ore e ore a scrivere lettere per cercare di riaggiustare le cose. Certe volte lasciava un appartamento e ne affittava un altro a pochi isolati di distanza e poi, un mese dopo, tornava al posto che aveva lasciato, magari sceglieva solo un altro piano o un’altra ala dell’edificio. Per questo, quando si è trasferita qui, le ho affittato una casetta, cercando di fare attenzione che fosse ammobiliata secondo i suoi gusti. – Spostarsi di continuo è una cosa che la fa sentire viva, – diceva Jill. – Le dà qualcosa da fare. Mi sa che ci prova un qualche strano gusto –. Comunque, gusto o non gusto, Jill è convinta che a mia madre stia dando di volta il cervello. Ne sono convinto anch’io. Ma come si fa a dire una cosa del genere alla propria madre? Come ci si comporta con lei in un caso del genere? La pazzia non le impedisce certo di programmare e mettere in atto l’ennesimo trasloco.
Quando arriviamo è lí alla porta di servizio che ci aspetta. Ha settant’anni, i capelli grigi e porta gli occhiali con la montatura di strass; non è mai stata malata un giorno in vita sua. Abbraccia Jill e poi abbraccia anche me. Ha gli occhi lucidi, come se avesse bevuto. Ma lei non beve mica. Ha smesso anni fa, dopo che anche mio padre aveva piantato lí di bere. Finiamo di abbracciarci ed entriamo. Sono quasi le cinque del pomeriggio. Sento un odorino proveniente dalla cucina e mi viene in mente che non ho mangiato niente dall’ora di colazione. L’effetto dello spinello ormai si è esaurito.
– Ho una fame, – dico.
– Che profumino, – dice Jill.
– Speriamo sia buono anche il sapore, – dice mia madre. – Speriamo che questo pollo si sia cotto –. Alza il coperchio del tegame e affonda la forchetta nel petto di pollo. – Se c’è una cosa che non sopporto, è il pollo crudo. Mi sa che è cotto, comunque. Perché non vi sedete? Dove vi pare. Non riesco ancora a regolare bene questa cucina. Le piastre si riscaldano troppo in fretta. Non mi piacciono le cucine elettriche, non mi sono mai piaciute. Leva quella roba dalla sedia, Jill. Vivo qui come una zingara, accidenti. Ma ancora per poco, spero –. Si accorge che mi guardo attorno in cerca d’un posacenere. – Lí, dietro di te, – mi fa. – Sul davanzale, tesoro. Perché non ci versi un po’ di quella Pepsi, prima di metterti a sedere? Dovremo bere in questi bicchieri di carta. Avrei dovuto dirti di portare anche i bicchieri. È fresca la Pepsi? Ghiaccio non ne ho. Quel frigo lí non tiene fresco un bel niente. Non vale un accidenti. Il gelato mi si squaglia sempre. È il peggior frigorifero che abbia mai avuto.
Mette il pollo in un piatto e lo porta in tavola insieme ai fagiolini, a un’insalata di cavolo crudo e maionese e al pane bianco. Poi controlla se non ha dimenticato niente. Il sale e il pepe! – Coraggio, a tavola, – dice.
Trasciniamo le sedie vicino al tavolo e Jill tira fuori i piatti dal sacchetto e ce li passa. – Dove andrai ad abitare quando torni giú? – le chiede. – Hai già un posto dove andare?
Mia madre porge il pollo a Jill e dice: – Ho scritto alla signora dove abitavo prima. Mi ha risposto dicendo che ha un bell’appartamentino al primo piano per me. È vicino alla fermata dell’autobus e ci sono un sacco di negozi nella zona. C’è la banca e il Safeway. È un posto carinissimo. Non so perché me ne sono venuta via, – dice mentre si serve una porzione d’insalata.
– Perché l’hai lasciato, allora? – dice Jill. – Se era tanto carino e tutto il resto –. Prende una coscia di pollo, la guarda un po’ e poi l’addenta.
– Te lo dico io, perché. C’era questa vecchia ubriacona che abitava nell’appartamento accanto. Beveva da mattina a sera. Le pareti erano cosí sottili che la sentivo masticare i cubetti di ghiaccio tutto il giorno. Doveva usare una specie di girello per camminare, ma la cosa certo non la tra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Non c’è nulla da vincere di Michela Murgia
  4. Da dove sto chiamando
  5. Nessuno diceva niente
  6. Biciclette, muscoli, sigarette
  7. La moglie dello studente
  8. Loro non sono tuo marito
  9. Che si fa a San Francisco?
  10. Grasso
  11. Che ci sarà mai in Alaska?
  12. Vicini
  13. Provi a mettersi nei miei panni
  14. Collettori
  15. Perché, tesoro mio?
  16. I chilometri sono effettivi?
  17. Gazebo
  18. Un’altra cosa
  19. Piccole cose
  20. Perché non ballate?
  21. Un discorso serio
  22. Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
  23. Distanza
  24. La terza cosa che ha ucciso mio padre
  25. Con tanta di quell’acqua a due passi da casa
  26. La calma
  27. Vitamine
  28. Attenti
  29. Da dove sto chiamando
  30. La casa di Chef
  31. Febbre
  32. Penne
  33. Cattedrale
  34. Una cosa piccola ma buona
  35. Nuovi racconti
  36. Il libro
  37. L’autore
  38. Dello stesso autore
  39. Copyright