Scappai una notte di febbraio. Da giorni, appena restavo in casa da sola, correvo a tirare fuori la valigia dall’armadio, la aprivo sul letto e dentro ci mettevo le canottiere e i pigiami. Li stiravo tra le mani, cosí occupavano meno spazio. Misi tutti i maglioni che avevo, perché Clarissa al telefono ripeteva che anche a Milano faceva freddo. Infilai le saponette profumate che avevo preso al mercato: ogni volta che mi avanzavano spiccioli ne compravo una. Le vendeva una vecchia bulgara che si metteva in ginocchio sul marciapiede e io perdevo un sacco di tempo ad annusarle una a una, finché non distinguevo piú gli odori.
Attraversai il corridoio con le scarpe in mano, rasente al muro come un’ombra. Il pavimento era cosí freddo che scottava, dalla finestra entravano spifferi che intirizzivano la pelle. Appoggiai la porta piano e allo scatto della serratura mi misi a correre. Superai in fretta la scuola elementare, poi le vie strette che portano alla chiesa di legno. Tagliai di corsa per i campi, il vento mi soffiava negli occhi e mi graffiava le guance. Maledicevo le sigarette e anche se sentivo il cuore impazzito e la valigia mi scivolava, anche se avevo paura di cadere in un fosso e che i topi mi mordessero le caviglie, non smettevo di correre perché era meglio morire tra i campi piuttosto che affrontare lo strazio di salutarvi guardandovi negli occhi.
Corsi fino a quando spuntò un raggio di luce e le nuvole, basse sui tetti, si macchiarono di viola. Allora mi voltai e vidi che il paese era finito da un pezzo. La nebbia galleggiava sui sentieri e mi si attaccava addosso. Squarci di cielo si riflettevano nelle pozzanghere opache.
Il pullman era fermo sotto l’insegna penzolante della lavanderia a gettoni. Cinque donne parlavano in cerchio: la piú vecchia mi fece un sorriso.
– È giovane, – disse alle altre.
L’autista lo conoscevo fin da bambina, si chiamava Cezar. Mi salutò per nome, poi con un gesto della mano mi chiese i soldi del viaggio. Li tirai fuori dal reggiseno, li avevo nascosti lí dopo averli contati decine di volte. Glieli misi in mano con la testa girata di lato perché in quel momento volevo soltanto andarmi a sedere in fondo al pullman, respirare l’aria che stagnava là dentro. Mi addormentai di sasso. E dormii cosí tanto che a un certo punto la piú vecchia venne a scuotermi la spalla. – Ehi, stai bene? – Sentivo fitte alla testa, gli sbadigli mi facevano lacrimare. – Sei scappata? – domandò con due occhi che sapevano già la risposta. – Ti squillava il telefono, forse dovresti rispondere.
Di scatto frugai nella tasca del piumino, i fazzoletti e le chiavi caddero per terra. La donna mi scrutò coi suoi occhi che sembravano conoscermi da sempre: – A volte si può solo fare cosí, – aggiunse allargando un sorriso mentre mi guardava le mani screpolate.
Cominciai a disegnare sul vetro e lei se ne tornò al suo posto, lasciando dei biscotti al burro sul sedile di fianco. Li mangiai uno dopo l’altro, e mentre masticavo il telefono riprese a vibrare. Filip, però, lo richiamai soltanto alla fine del viaggio.
– Sono a Milano, Clarissa mi ha trovato lavoro come badante, – gli dissi quando il pullman ci lasciò nel parcheggio. Attorno c’era solo l’autostrada su cui sfrecciavano i camion, e oltre il marciapiede le scale della metropolitana.
– Torna indietro, – ordinò con la voce scura.
– Non abbiamo piú soldi, l’azienda non paga e tu non lavori da un anno, – dissi. – I ragazzi dovranno smettere di studiare.
– Andrò a fare il muratore in Polonia.
– Da quanto lo dici?
– Daniela, torna a casa.
– I miei ti daranno una mano, manderò tutti i soldi che riuscirò a mettere via.
– Mi troverò un lavoro in fretta, vedrai.
– Non ti credo piú, Filip.
– Perché sei scappata cosí? Vuoi rovinare tutto?
– Sono stufa delle tue promesse, dei tuoi giuramenti del cazzo: cerco lavoro, mi do da fare, smetto di bere.
– Torna indietro, Daniela, – ripeté.
La sua voce sembrava quella di chi prega.
La piú vecchia del gruppo salutò le altre e mi allungò un biglietto della metropolitana incamminandosi col suo passo pesante verso le scale. Le raccontai che un’amica mi aveva trovato lavoro.
– Prenderai in affitto un appartamento?
– No, starò da lei.
– Brava, cosí potrai mandare piú soldi a casa.
Per conoscere qualcuno mi consigliò di andare in chiesa e passeggiare nei parchi, perché le badanti vanno lí a incontrarsi. Se c’è il sole ognuna porta da mangiare e si passa qualche ora in compagnia.
– Almeno possiamo parlare la nostra lingua! – esclamò. – Vedrai, il rumeno ti mancherà piú della tua famiglia –. Timbrò il biglietto anche per me e con la mano fece cenno di seguirla. – I primi tempi mi pareva di aver perso l’allegria, in italiano non mi veniva mai una battuta, – vociò mentre il convoglio frenava davanti a noi. – Uno fa solo pensieri da animale senza la sua lingua.
Quella donna di cui non ricordo il nome abitava in piazza della Repubblica, vicino alla stazione Centrale. Non riuscivo a immaginarla fare la badante, non capivo come una vecchia potesse assistere un’altra vecchia. Quando la metro si fermò nella stazione di Loreto mi spinse sulla banchina. – Buona fortuna! – gridò mentre le porte si chiudevano. Da dietro il vetro faceva sí con la testa, come se sapesse già quello che mi aspettava. Poi in un attimo il vagone ripartí e scomparve nella galleria. Ancora oggi, quando capito dietro la stazione, alzo sempre gli occhi per vedere se si affaccia da una finestra, se dall’altra parte della strada ritrovo quel viso buono o la vedo col suo passo pesante spingere una carrozzella.
«A volte si può solo fare cosí», aveva detto sul pullman. Quella frase mi toglieva la colpa.
Piazzale Loreto ha la forma di un polipo, la rotonda spartitraffico è la testa e i grandi viali a raggiera sono i tentacoli.
Incontrai Clarissa davanti a un negozio di cibo per cani, entrammo in un bar e quando si tolse il cappello di lana le vidi i capelli crespi e bianchi.
– Lo so, sono qui da tre anni e sono invecchiata di dieci. Preparati… – disse sconsolata, mentre cercava di pettinarsi con le mani. – La mia vecchia è pesante da sollevare, non fa che gridare nel sonno. Ho la schiena a pezzi.
– Sono già passati tre anni?
– Quasi quattro.
– E quando tornerai in Romania?
– Ma che ne so… Dico sempre che torno e poi non torno mai, – rispose guardando fuori dalle vetrate del bar.
– Chissà quanto resisterò.
– Vedrai che ti abitui in fretta, – commentò facendo mezzo sorriso. – Non si sta male a Milano –. Poi si affrettò a cambiare discorso: – Daniela, non so in che situazione è il vecchio da cui andrai, – disse mentre raccoglieva col cucchiaio la schiuma del cappuccino.
– Avevo capito che lo conoscessi.
– Hai capito male, non l’ho mai visto, – ribatté stupita. – Ci andava una mia amica che è stata assunta in un’impresa di pulizie, beata lei…
– Perché beata lei? È meglio fare le pulizie?
– No, ti pagano poco e devi per forza affittare un appartamento. Però le scale le lavi e sei a posto, non ti svegliano di notte… E non ti fanno venire i capelli bianchi.
Clarissa controllava di continuo l’orologio, finché a un certo punto disse sbuffando che doveva rientrare. I figli della vecchia le contavano i minuti.
– Oggi mi hanno rimproverata perché ho messo troppo aglio nel sugo, l’altra volta ci avevo messo poco sale… Ma lo sai quanto è buono il mio sugo?
– Purtroppo no…
– E vedessi il loro, liquido come il piscio!
Ci salutammo in fretta, pagammo ognuno il suo e scendendo le scale della metropolitana cercai l’indirizzo sul cellulare.
Via Pellegrino Rossi è lunghissima, piena di negozi etnici e di indiani che bussano ai finestrini delle auto cercando di rifilare rose flosce.
D’improvviso, mentre camminavo, calò una nebbia spessa che ingoiò tutto: passanti, automobili e venditori di rose. Col figlio del vecchio avevo appuntamento davanti al benzinaio. Era lí in piedi a pochi passi da me, e appena i nostri sguardi s’incrociarono mi venne incontro. Si chiamava Ernesto, era un tipo basso e tarchiato, con i capelli radi tirati in avanti. Prese la mia valigia e mi fece strada sotto i portici di un palazzo col cancello rugginoso.
In ascensore mi schiacciai in un angolo e quello mi allungò un dizionarietto tascabile dicendo che era un regalo.
– Sei di Bucarest? – chiese senza darmi il tempo di ringraziare.
– No, di Iași, al confine con la Moldavia.
Lo studiavo da un paio d’anni, l’italiano. Guardavo video su internet, ascoltavo le canzoni di Vasco Rossi e di Zucchero, leggevo le notizie sui giornali online. L’ho sempre saputo che prima o poi il giorno di partire sarebbe arrivato.
– Papà! – chiamò aprendo la porta d’ingresso. – Papà, sono io!
In corridoio la luce era spenta, c’era puzza di minestrone e si sentiva la tv a un volume assordante. Senza farmi vedere cercai sul telefono il numero di Filip, avevo voglia di averlo a fianco, non c’era un’altra persona che potesse proteggermi. Mi ero innamorata di Filip perché, pur essendo alto e grosso, non mi faceva paura: aveva una faccia ironica, indossava camicie bizzarre e in macchina cantava canzoni sdolcinate con la sua voce sgraziata. Se si fosse trovato un lavoro e l’avesse piantata una volta per tutte di bere mi sarei fatta bastare l’affetto che rimane dopo l’amore.
Il vecchio se ne stava seduto su una poltrona a soffiare in un tubo di plastica immerso in un catino d’acqua. Si chiamava Giovanni. Il figlio andò a spegnere la tv e lui smise improvvisamente di fare le bolle. Ci guardò con gli occhi sbarrati, grattandosi la testa calva.
– È asmatico, ha bisogno di fare questo esercizio, – mi spiegò Ernesto indicando il catino.
Provai a scandire il mio nome, ma lui restò impassibile. Gli importava che uno di noi due riaccendesse il televisore, nient’altro.
– Devo sentire le notizie. Oh! Le notizie! – gridava.
Ernesto mi portò in cucina e poi nel resto della casa: il bagno lungo e stretto, la camera da letto, un ripostiglio con ripiani colmi di cianfrusaglie e file di barattoli impolverati.
– Questa era la mia camera, anche l’altra badante dormiva qui, – disse sulla soglia della stanza. – Ho cambiato le lenzuola, capisci quello che dico?
– Sí.
– Allora ascolta: dopo che mia madre è morta lui è caduto in depressione. Di notte se la fa sotto, vuole mangiare soltanto minestrone, non vuole lavarsi e non vuole andare in una casa di riposo. Soffre d’asma e ha un carattere di merda.
– Ha l’Alzheimer?
– No, la demenza senile.
– Quanti anni ha?
– Ottantotto.
Mentre quello parlava io pensavo ai disegni che avrei voluto fare. Da sempre, quando voglio isolarmi, disegno. I due soldi che in Italia ho speso per me li ho lasciati tutti in cartoleria: stavo ore a guardare la grammatura dei fogli, le matite a mina, i pastelli a cera…
Già da piccola non m’importava molto delle parole, preferivo colorare. Se mia madre entrava in stanza, ficcavo il foglio in mezzo al sussidiario e facevo finta di seguire il testo col dito. Se invece mi beccava, protestavo: «Ma lo sto facendo per te!» Disegnavo case sul mare, con la schiuma delle onde in lontananza e un cielo bigio che annunciava pioggia. Il giallo era il mio colore preferito, per paura che si consumasse non facevo mai il sole. Regalavo disegni a tutti. Cercavo di donarli con noncuranza, ma me la prendevo a morte se qualcuno li piegava in due o li lasciava in giro.
– Mi stai ascoltando? – domandò Ernesto.
– Sí, scusa.
Mi mise sotto il naso un foglio che elencava le medicine da dare a suo padre, le nominava una a una mostrando la confezione o sollevando con due dita il flaconcino delle gocce. Sopra il frigorifero c’erano cosí tante scatole che sembrava il banco di una farmacia. Poi andammo in bagno, perché voleva spiegarmi come funzionava la lavatrice.
– Non vengo da Marte, so come si usa una lavatrice, – dissi trattenendo la risata.
– Sí, hai ragione.
– Preferisco che mi paghi ogni sabato, – continuai scandendo le parole.
Ernesto aprí il portafogli e appoggiò sul tavolo quattro banconote da cinquanta. Io mi strinsi nelle spalle e lui ne tirò fuori un’altra.
– Vorrei che ti occupassi anche di tenere pulita la casa, – aggiunse roteando la mano in aria.
A volte disegnavo la tavola apparecchiata, il viola e l’arancio per il cesto della frutta, l’azzurro per la brocca d’acqua, i mobili della cucina con la matita semplice.
– Ehi, ma mi segui?
– Sí certo, pulire la casa.
In sala mi feci coraggio e andai vicino a Giovanni, che appena mi vide nascose il telecomando dietro la schiena. Mi inginocchiai di fianco alla poltrona, in modo da seguire assieme a lui il gioco a quiz davanti a cui stava imbambolato continuando a soffiare nel tubo di plastica. Sul balcone avevo visto una fila di vasi e chiesi se l’indomani gli andava di bagnare le piante. Lui abbassò le labbra e con quegli occh...