II. Le parole per dirlo
1. Le notizie
Tra le prime notizie di stampa sui campi di deportazione e di sterminio nazisti ci furono quelle apparse sugli organi ebraici di informazione. L’Israel, che aveva appena ripreso le pubblicazioni dopo una interruzione di anni, presentava il 4 febbraio 1945, a p. 4, un articolo dal significativo titolo “I combattenti per la libertà: Gilberto Cohen, Angelo Finzi, Luciano Servi”, e il 25 aprile, sulle stesse colonne, Fabio Della Seta celebrava l’insurrezione del ghetto di Varsavia di due anni prima: “Sei milioni di ebrei sono stati scannati, come un gregge che s’affolla docile sotto il coltello del suo carnefice. Non esiste nella storia del mondo un tale esempio di resistenza passiva (...) Ma pur se umiliati, martoriati, stanchi e disillusi v’è ancora un nome che ci fa fremere e ci fa sperare: Varsavia. Le bandiere issate di Varsavia testimoniarono la fiducia degli ebrei nella causa del buon diritto. Morirono per dare un esempio a se stessi, al mondo democratico in armi e allo stesso furente nemico. Morirono per consacrare una volta di più la volontà di vivere del popolo ebraico (...): per il ricordo santo del ghetto di Varsavia, gli uomini dovranno vincere il male e incamminarsi verso la luce”.
In quel momento, mentre tutti venivano reclutati per la creazione di una nuova identità nazionale democratica e antifascista, il paradigma concentrazionario dei deportati ebrei fu assorbito integralmente nella narrazione resistenziale del mondo antifascista italiano. Gli ebrei, come del resto gli altri deportati, scelsero consapevolmente di aderire al modello eroico proposto dalla Resistenza e favorirono una memoria ebraica di combattenti per la libertà, di caduti in battaglia con le armi in pugno: questo fece di loro, da subito, un importante fattore di mediazione per la normalizzazione del passato e la ricostruzione del presente. Era certamente vero che la loro partecipazione attiva nelle file della Resistenza non solo aveva contato su un numero elevato, circa 2.000 tra uomini e donne, e tuttavia essa era stata condotta all’interno della Resistenza senza dare origine a organizzazioni separate. Questa condizione ebraica di resistenza antifascista è testimoniata da Leo Valiani: “Gli ebrei in quanto tali avevano particolari ragioni per militare nelle file partigiane, ma ciononostante avevano sempre – nella stragrande maggioranza – la sensazione di battersi per la libertà della patria italiana. (...) E perciò non vi fu un antifascismo specificamente ebraico, non vi fu una lotta partigiana specificamente ebraica. Tutti si battevano per l’avvenire della comune patria italiana, sapendo che il destino degli ebrei era inseparabile da quello dell’Italia libera e democratica”. In altri termini, soltanto una vittoria della Resistenza avrebbe creato le condizioni perché gli ebrei potessero non solo sopravvivere ma anche vivere come liberi cittadini: perciò ad essa gli ebrei rivendicarono la propria appartenenza come singoli e come gruppo. Espressione di questa sintesi fra appartenenza nazionale, antifascismo ed ebraismo è la figura di Franco Cesana, staffetta portaordini presso la formazione Scarabello della Divisione Garibaldi, il più giovane partigiano italiano caduto in combattimento all’età di 14 anni.
La stampa ebraica continuò a sottolineare la resistenza antifascista degli ebrei. Dante Lattes, direttore di Israel, concluse la sua nota al XXII Congresso sionista del 1946 con un riferimento di chiaro sapore antifascista: “Sei milioni di morti. È questo il nostro contributo alla lotta contro il fascismo”. Nel clima generale sorto attorno alla nuova repubblica emergeva l’ingiunzione alla memoria, insieme alla considerazione che l’oblio fosse una colpa perché avrebbe reso vano il sacrificio delle vittime.
Questi primi riferimenti ebraici si accompagnavano a un’informazione più diffusa anche sulle pagine dei giornali non ebraici. Uno dei primi articoli fu pubblicato l’8 dicembre 1944 su l’Unità. Era la traduzione di un breve testo del corrispondente di guerra e poeta sovietico Konstantin Simonov, “Un campo di sterminio degli ebrei”, che descrivendo il lager di Majdanek lo definiva come “il macello più grande al mondo”. Contemporaneamente, il 7 dicembre sulle pagine di Israel Carlo Alberto Viterbo lanciava lucide e accorate affermazioni intese a risvegliare la coscienza del mondo, e tali da risuonare con forza nuova sugli spiriti democratici e antifascisti: “La guerra dichiarata agli ebrei da Hitler e dai suoi seguaci fuori e dentro i confini della Germania non è infatti soltanto una lotta di uomini armati contro inermi, non è soltanto il procedere di una enorme macchina guidata da un folle, è intesa a stritolare spietatamente uomini e donne, vecchi e bambini, per raggiungere lo scopo di un totale annientamento e di una totale depravazione”.
Assorti a comprendere cosa fosse realmente accaduto e a valutare la portata dello sterminio del proprio popolo, gli ebrei cercavano di ritrovare con difficoltà il loro posto nel mondo, di riprendere il discorso interrotto così drammaticamente dalla persecuzione prima e dalla guerra dopo. Alla fine del 1944, quando ancora i nazisti occupavano una gran parte dell’Italia, nessuno poteva ancora valutare pienamente la portata dello sterminio; e anche se si pubblicavano notizie come quella del processo tenuto a Lublino, in Polonia, contro sei nazisti per i crimini commessi nel campo di Majdanek, le informazioni apparivano caratterizzate da un tono improvvisato ed occasionale.
L’attenzione si accentuò alla fine del gennaio 1945. Su l’Unità e su l’Avanti! vennero pubblicati articoli corredati da mappe sull’avanzata dell’Armata Rossa in Polonia che descrivevano la liberazione di alcune città, tra cui Auschwitz, indicata con il suo nome polacco, Oswiecim.
Perfino il battesimo di Israel Zolli, rabbino capo della comunità ebraica romana, fu letto da Dante Lattes nel contesto dello sterminio ebraico che aveva duramente messo alla prova la forza morale e lo spirito dei più deboli tra gli ebrei: “Nessuna fede, nessuna dottrina filosofica o politica è uscita con onore da questa catastrofe; nessuna si è infatti opposta al male, alla violenza, alla tirannide con quel coraggio da cui sorgono i martiri (...). Che cosa va a cercare fra i ruderi di questo mondo l’ebreo che è uscito sano e salvo, col suo corpo e colla sua idea, da tante spaventose tempeste? (...) Questo mondo al quale l’ebreo si vende, disertando il proprio, è in sostanza il mondo di cui egli ha paura”. Lattes utilizzava la conversione di Zolli per richiamare al suo dovere il mondo che era rimasto indifferente alla catastrofe, perché si salvaguardasse “quanto v’è di necessario, di legittimo e di giusto nell’aspirazione e nella volontà di dare pace e libertà agli ebrei, non solo come individui ma anche come collettività storica (...). È urgente che si dia massima importanza alla cura dei cuori e dei cervelli degli ebrei: altrimenti c’è il pericolo che la schiera degli apostati si accresca per generazione spontanea o per altrui propaganda”. Il discorso sulla propria identità riemergeva con forza all’interno del mondo ebraico, tanto che il settimanale Israel, il 24 maggio 1945, si fece promotore di un referendum, dal titolo: “Malgrado ciò che è accaduto nell’Europa e nel mondo intero, malgrado le stragi e le deportazioni, siete rimasto ebreo, perché?”.
L’8 marzo 1945, mentre in Palestina veniva proclamato il lutto nazionale per un’intera settimana, su Israel veniva pubblicato il primo articolo di timbro diverso, in cui non erano più l’antifascismo e la lotta armata ad essere al centro della recente storia ebraica bensì lo sterminio di inermi. Si trattò forse della prima riflessione su ciò che aveva e avrebbe significato l’Olocausto per la vita ebraica: “Nessun popolo nella storia ha fatto lutto per 5 milioni di caduti; nessun popolo mai nella storia si è trovato a constatare l’uccisione di un terzo dei propri componenti; nessun popolo ha mai perduto, non in combattimento con le armi in pugno ma per orrende carneficine contro inermi, insieme agli uomini validi, tante donne innocenti, tanti vecchi venerandi, tanti bambini sorridenti alla vita”. Nello stesso numero compariva il primo elenco degli ebrei deportati da Roma, accanto alla recensione, firmata da Carlo Albero Viterbo, all’anonimo fascicolo di 16 pagine intitolato Nove mesi di martirio. La tragedia degli ebrei sotto il terrore tedesco, in cui venivano presentati i fatti più salienti delle persecuzioni antisemite di Roma.
Da allora le pagine del giornale furono quasi interamente occupate dalle notizie sui campi di concentramento. Si parlava di Fossoli e di Auschwitz, ma con un linguaggio incredulo e dubbioso: non era nemmeno chiaro se chi scriveva sapesse dove era Auschwitz. Anche per l’uso del termine “campo di concentramento” bisognerà aspettare l’aprile del 1945. Cominciarono ad arrivare le prime informazioni sull’arrivo a Stoccolma di ebrei sopravvissuti ai lager di Bergen Belsen e di Birkenau, a quali si aggiunsero il 4 maggio 1945 quelli di altri sopravvissuti, forniti al ministero degli Affari esteri attraverso l’ambasciata italiana a Mosca. L’annuncio dell’arrivo a Bucarest di altri ebrei sopravvissuti di Oswiecim, scritto Oszviencim, riempiva la prima pagina del giornale. L’errore non casuale nella trascrizione dei nomi dei campi confermava il senso di estraneità, di distanza, di “ignota destinazione” che circondava la memoria dello sterminio nel suo iniziale tentativo di rielaborazione. L’articolo di Dante Lattes, “Dobbiamo ancora avere fiducia negli uomini?”, che riferiva quasi esattamente il numero e i dati dei 5.000.000 di morti ammazzati, sembra suggerire l’immagine di un mondo ebraico abbandonato a se stesso, separato dal resto, tutto compreso nella rielaborazione del proprio lutto. Si faceva martellante la pubblicazione dell’elenco in ordine alfabetico dei deportati da Roma che includeva, fatto rilevante, anche i nomi degli ebrei massacrati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. La confusione nella memoria segnava il ricordo: la lista, il cui scopo era di determinare il numero dei morti, si era trasformata in un lungo e grande necrologio. Una settimana dopo, fu pubblicato dallo stesso giornale il messaggio di saluto alle proprie famiglie inviato dal campo di Buchenwald da Michele Amati e Sabatino Finzi, deportati da Roma il 16 ottobre 1943.
L’organo del Partito socialista l’Avanti!, il 20 aprile 1945, diede la notizia della liberazione di Buchenwald e Bergen Belsen, avvenuta rispettivamente l’11 aprile e il 15 aprile del 1945; quella di Mauthausen il 5 maggio. Il 13 maggio 1945 Il Giornale del Mattino ruppe il silenzio sui campi di concentramento con un articolo di Paolo Alatri che parlava di Ohrdruf, Buchenwald, Bergen Belsen, Ravensbrück e Nordhausen: era il primo contributo, lungo e dettagliato, che non avesse semplice carattere informativo.
Si moltiplicarono gli articoli su Auschwitz quando cominciarono ad apparire – numerose – le interviste dei sopravvissuti. Mauro Scoccimarro, ministro per l’Italia occupata e responsabile della Commissione centrale per l’accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti ai danni degli ebrei, chiedeva a Israel, il 10 maggio 1945, di pubblicare un appello rivolto alla comunità ebraica di Roma e, attraverso quest...