Rinnega tuo padre
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Rinnega tuo padre

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Rinnega tuo padre

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Spezzare i vincoli sacri del legame familiare può essere l'unico modo per sognare una vita normale.

Per un boss la famiglia conta più dei soldi e del potere. Perché mogli, figli, nipoti garantiscono la continuità dell'impero. La 'ndrangheta – la mafia più potente e ramificata al mondo – fonda la sua forza sui vincoli di sangue. È molto più di un semplice fenomeno criminale: è una cultura intrisa di violenza e di morte che si tramanda di generazione in generazione. Come le madrasse dello Stato Islamico indottrinano migliaia di adolescenti per trasformarli in martiri di Allah, così le 'ndrine allevano i bambini e li formano per un futuro da padrini. Oggi però ammaestrare la prole con le leggi non scritte del crimine ha delle conseguenze irreversibili: l'allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È questo il nuovo fronte della lotta alle cosche. Una guerra senza esclusione di colpi, che si combatte dall'ufficio di frontiera del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria. Dal 2012 sono quasi 50 i giovani strappati dai padrini. Questo è il racconto delle loro vite: un viaggio-inchiesta (con documenti e interviste esclusive) nell'abisso di famiglie falcidiate da un distorto senso dell'onore. Storie di figli che rinnegano i padri, e di madri coraggiose che hanno scelto di abbandonare al proprio destino i mariti fedeli solo alla legge del clan.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858133446
Argomento
Economics

1. Rocco

«La devi ammazzare. Due colpi nella faccia di quell’infame di tua mamma e chiudiamo ’sta tragedia una volta per tutte. Devi farlo tu. Con l’età che c’hai non andrai in galera». Il padre fissava il piccolo Rocco, da lui si aspettava la stessa determinazione nel tenere lo sguardo alto. Non rimase deluso. Erano uno di fronte all’altro nella campagna stretta tra l’Aspromonte e il mar Ionio. Seduti su poltroncine di plastica sotto un albero di arance in fiore, protetti da un lungo arbusto di gelsomino, che segnava il confine della tenuta. L’intenso e dolce profumo di gelsomino strideva con il cinico progetto di morte che don Nicola aveva appena consegnato nelle mani del suo erede.
Dalla vicina statale 106 giungevano i rumori lontani delle auto che correvano verso Reggio Calabria. All’orizzonte, verso la costa, si stagliava la ciminiera dell’impianto industriale realizzato negli anni ’70 con mille miliardi pubblici. Mai entrato in funzione. Un reperto mostruoso di archeologia industriale affacciato sul mare. Simbolo intoccabile di un potere criminale tanto capillare e diffuso da trasformare una regione in un regno di sudditi. Grazie a quella pioggia di denaro i clan locali iniziarono la loro ascesa imprenditoriale e finanziaria. Un es(c)empio di finanziamento statale alle cosche della ’ndrangheta. Quando posarono la prima pietra, don Nicola era un ragazzo. Ricorda, però, la festa a casa del padrino, la soddisfazione per la riuscita dell’affare. La sera stapparono le bottiglie del vino migliore. Nicola aveva intuito l’importanza del momento. Di lì a poco sarebbe cresciuto, in tutti i sensi. Oggi è un soldato fidato della ’ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Conosce le regole. La prima è non tradire. La seconda, che nessuno ti insegna, è bandire sentimenti ed emozioni. È questo secondo principio di mafiosità che trasforma un mafioso in una spietata macchina da guerra.
Il piccolo Rocco è nato nel 2004, alcuni anni dopo l’ingresso di Nicola nella ’ndrina del paese. Rocco, tuttavia, non è il suo vero nome e sul paese possiamo dire poco. Non per omettere qualcosa, ma solo per tutelare il ragazzo, che oggi vive in una località protetta. Lontano da quel padre che voleva diventasse un killer, battezzato col sangue della madre come nelle più classiche delle tragedie greche. L’inizio di una carriera. Per diventare magari un giorno capomafia.
Rocco non vede più suo padre da oltre un anno. Vive con la mamma e la sorella fuori dalla Calabria. È uno degli ultimi ragazzi allontanati per decreto del Tribunale dal genitore ’ndranghetista. Il termine tecnico della procedura è “decadenza della responsabilità genitoriale”. Finora il presidente del Tribunale, Roberto Di Bella, ha firmato quasi 50 decreti di questo tipo. La decisione di intervenire non è indiscriminata. Si fonda su notizie provenienti da indagini della magistratura da cui emerge il degrado educativo di cui sono vittime questi ragazzi. Degrado educativo inteso come trasmissione di valori mafiosi e perciò trattato alla pari di un maltrattamento fisico.
Per comprendere fino in fondo cosa si intenda per trasmissione della cultura ’ndranghetista e come questa venga inculcata nella mente di adolescenti indifesi, è necessario leggere gli atti che sono alla base delle decisioni del Tribunale. In queste pagine, infatti, troviamo i tratti di una pedagogia parallela, l’educazione di un figlio al crimine. Il più piccolo degli “allontanati” nel 2016 aveva 12 anni. Per Rocco e altri ragazzini come lui, figli di latitanti, di boss, di soldati semplici, il destino familiare aveva riservato un posto nell’organizzazione. La ’ndrangheta, però, non aveva fatto i conti con un giudice altrettanto determinato e coraggioso. Il magistrato che ormai da cinque anni offre una via d’uscita all’obbligatorietà della pena. E che ha cambiato il corso degli eventi. Dimostrando come il destino non sia immutabile.
Rocco aveva compiuto da poco 11 anni quando i genitori si separarono. Già nella sentenza di separazione il giudice aveva tenuto conto del pedigree criminale del padre e perciò la scelta fu di affidare i figli alla madre. Questa decisione don Nicola l’aveva vissuta come un affronto, una dichiarazione di guerra. Sua moglie era «’na fimmina che non sa stare al suo posto». La cultura maschilista è un pilastro portante per la società edificata dagli ’ndranghetisti. La donna deve vivere all’ombra dell’uomo. La sua vita ha valore solo se rispetta sempre e comunque il ruolo e le scelte del marito. Se vacilla questo punto d’appoggio del pilastro, trema tutta la struttura. Non può protestare, dissociarsi, ribellarsi. La libertà di scelta è per lei un diritto negato. Il capo esercita il suo potere indiscusso fuori e dentro le mura domestiche. Dirige, impone, sa cosa è meglio per il bene della famiglia. Le donne che osano mettere in discussione l’autorità sono considerate inaffidabili, puttane, pazze, indegne. Femmine senza onore. Che diventano fattore di instabilità nell’equilibrio criminale. E che perciò vanno eliminate.
Rocco aveva impugnato per la prima volta la pistola a 12 anni. Gracile com’era, non era stato facile per lui premere il grilletto e resistere al rinculo. Suo padre aveva improvvisato un poligono artigianale nella campagna del nonno. Su un tavolo piazzato tra due alberi aveva sistemato alcuni barattoli di latta. Rocco aveva preso la mira con l’aiuto del papà. Poi in un attimo il colpo era partito e la tensione che aveva fatto tremare quelle gambe incerte di bambino si era sciolta. La seconda volta aveva sparato con il fucile del nonno. La terza di nuovo con la pistola. In un mese aveva ormai acquisito la sicurezza di un pistolero esperto. Agli occhi di suo padre stava diventando finalmente un uomo.
Passavano gli inverni e le estati, e Rocco era pieno di ammirazione per quel padre autoritario e violento. Era il suo modello, anche perché non ne aveva altri. Quello era suo padre. Quando si viene al mondo nessuno ti chiede in quale famiglia vuoi nascere. Lui quel genitore non solo lo rispettava come tutti i bravi figli, lo emulava. Aveva via via maturato la convinzione che scimmiottare il comportamento di suo padre fosse l’unico modo per dimostrare al paese il proprio valore. E se l’affermazione di sé lo avrebbe condotto in galera, poco gli importava. Faceva parte del gioco. Del resto suo padre aveva vissuto il carcere con grande dignità e senza lamentarsi. Un passaggio quasi obbligato, ineluttabile. Uno stadio di maturazione che rafforza la mente e lo spirito.
Rocco respirava ’ndrangheta e piombo. Tutto ciò non gli procurava alcun turbamento, anzi gli piaceva sentirsi parte di un disegno criminale. Si sentiva gratificato dalle attenzioni che gli riservava quel padre forte, diverso da tutti gli altri che al massimo portavano i propri figli a pescare su una barchetta di legno nelle sere d’estate. E non gli interessava se a differenza di altri suoi coetanei non sarebbe mai andato a Gardaland o Disneyland. Gli bastavano il poligono in campagna, le storie che orecchiava nella casa paterna durante misteriosi incontri a cui partecipavano decine di uomini. Era orgoglioso di quella vita che gli toccava e non sapeva immaginarne un’altra. Non aveva un sogno nascosto, un suo personale desiderio da tenere stretto e da non rivelare a nessuno. La ’ndrangheta uccide persino l’immaginazione. Sterilizza la fantasia. L’educazione criminale forgia le menti e arma il braccio dei giovani rampolli. È lo strumento che il potere mafioso utilizza per mantenersi nei secoli. Il processo non è dissimile da quello messo in pratica nelle scuole coraniche dell’Isis. L’addestramento dei bambini come fattore di continuità generazionale. Il piccolo Rocco era parte di questo piano. Il progetto educativo prevedeva un indottrinamento di regole arcaiche, una prova di coraggio e l’instradamento nella società ’ndranghetista. Sarebbe diventato un soldato, col rischio di finire sul tavolo di qualche obitorio. Oppure avrebbe curato gli affari della cosca con il rischio altrettanto concreto di finire dietro le sbarre. Chissà quale ruolo gli sarebbe toccato.
Di certo, un giudice ha impedito che Rocco diventasse un killer bambino. Ha impedito che la vita di sua madre diventasse lo scalpo da portare in dono al capotribù in segno di riconoscenza. L’iniziazione, dopo la quale non è più possibile tornare indietro, non si è ultimata. Ancora qualche anno e avrebbe giurato fedeltà a san Michele Arcangelo con il sangue. Sarebbe entrato di diritto e ufficialmente nell’esercito delle ’ndrine. Rocco ne conosceva tanti di ragazzi appena maggiorenni che avevano giurato. Li vedeva maturi, grandi, spavaldi. Giravano per il paese, si atteggiavano a padroni, e forse lo erano davvero. Persino suo padre riveriva quei pischelli, figli dei mammasantissima locali. Rocco li ammirava anche per questo. Perché di una cosa era certo, suo papà sapeva sempre ciò che faceva. Come per tutti i bambini, il papà era il suo supereroe. Possibile che volesse il suo male?
La fascinazione per suo padre e per la ’ndrangheta sfumava solo nei giorni in cui, dopo la separazione, stava a casa della madre. Lei non voleva che frequentasse certa gente. Gli spiegava che chi sceglie quel genere di vita è destinato a soffrire. Rocco annuiva perché le voleva bene, la ascoltava con attenzione ma non capiva del tutto quei discorsi. Intuiva la preoccupazione materna. Ma poi contava i minuti, impaziente di tornare in campagna con suo padre per sparare ai barattoli di latta.
Quando il padre avanzò l’ipotesi di fare del male alla donna, Rocco lo guardò stupito e sentì gli arti sprofondare nel torpore. Poi ritrovò la concentrazione necessaria per prendere la mira e sparare. Il giorno dopo era da sua madre. La sera, a cena, guardando il telegiornale nazionale, ascoltarono la notizia dell’omicidio di un ragazzo avvenuto nella periferia romana. Un regolamento di conti maturato, con tutta probabilità, nell’ambiente della mafia romana per il controllo del traffico di droga. La madre commentò con timore e sdegno, poi accarezzò il suo bambino. Erano soli, la figlia quella sera stava poco bene e riposava sul divano. «Roccu, mi prometti che stai attento, che non ti farai mai coinvolgere in cose strane, che ti stai lontano dalle armi. Vedi come si finisce», disse quasi sussurrando e cercando di non offendere la sensibilità del figlio con parole troppo dure. «Ma’, non mi fanno paura le armi. Le so usare, papà mi porta in campagna a sparare».
La donna ebbe un moto di rabbia che non riuscì a trattenere. Diede un pugno sul tavolo tanto da far cadere un bicchiere sul pavimento. Si accorse che stava piangendo solo quando le lacrime le arrivarono alle labbra. L’incubo delle notti peggiori prendeva forma nel racconto del figlio. Il suo Rocco addestrato come un soldato. A quando il martirio?, pensava immobile sulla sedia. «Mai più Rocco, mai più una cosa del genere – gridò –, se vengo a sapere che prendi in mano ancora una volta un’arma ti do tanti di quei ceffoni che la faccia ti diventa ’na zippola, capiscisti? E poi ti porto con me lontano da qui». Fu allora che Rocco, un po’ per dispetto, un po’ per liberarsi, rivelò alla madre il piano per ucciderla. «Papà dice che se ti faccio del male non andrò in galera perché sono minorenne». Nella stanza calò un silenzio surreale. Scomparve tutto. Restarono soltanto loro due, uno di fronte all’altra. Si guardavano senza dire altro. Da quel momento nulla sarebbe stato come prima. Non c’era rimprovero che potesse confrontarsi con la potenza delle parole di suo figlio. Ci sono momenti in cui le parole non hanno più senso. Di fronte aveva un ragazzino indifeso, fomentato e armato dal padre, spinto verso il gesto più innaturale per un figlio: uccidere chi ti ha fatto nascere. Non le restava che una sola cosa da fare: reagire con i fatti.
Era da poco spuntata l’alba dopo una notte insonne e tormentata. Mancava un mese al Natale 2016. Lo Ionio, in lontananza, sembrava uno specchio striato di rosso e arancione. L’aria fresca e pulita sul viso, la tazza di caffè tra le mani, sul tavolo un foglio bianco e una penna tra le dita. Era decisa a giocare l’ultima carta, la più pericolosa, per salvare la vita del figlio. Aveva letto di quel giudice che aveva preso a cuore il destino dei figli di ’ndrangheta. L’aveva visto in tv, schivo ma deciso. Strinse la penna e vergò la prima frase.
La prego allontani mio figlio dal paese di...; lo mandi in una regione diversa dalla Calabria, dove possa sottrarsi all’influenza negativa del contesto ambientale e familiare. Mio marito e i suoi parenti sono pregiudicati per gravi reati di ’ndrangheta. Temo che mio figlio prenda una brutta strada e possa finire coinvolto in vicende di mafia. Temo per la sua incolumità, anche per l’età delicata che lo rende facilmente suggestionabile. Temo anche per la mia incolumità, per tutte queste cose che sto denunciando nell’interesse di mio figlio e chiedo di essere aiutata, se è possibile, ad andare via con i miei figli. Voglio andare via per stare con loro e dargli tutto l’appoggio affettivo e crescerli nel rispetto della legge, cosa che in questi anni gli è mancata per colpa del padre. Faccio questo sacrificio personale perché vorrei assicurare ai miei figli una vita serena, che restando qui a... sicuramente non avrebbero. Chiedo di essere aiutata, farò tutto quello che il Tribunale mi prescriverà. Cordiali saluti.
Terminò di scrivere in tempo per preparare la colazione ai figli che di lì a poco si sarebbero svegliati. Nascose la lettera nella tasca interna della borsa. Accompagnò Rocco e la sorella a scuola. Poi fece inversione e si diresse verso Reggio Calabria. La lettera voleva consegnarla di persona, non si fidava neppure dei postini. Quella missiva poteva diventare la sua condanna a morte definitiva. Voleva essere certa che arrivasse nelle mani del giudice Di Bella.
Il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria è un palazzo bianco a due piani con un grande cortile e qualche palma sparsa qua e là, a pochi metri dal lungomare di cui ogni calabrese va fiero. Il chilometro più bello d’Italia. Una striscia d’asfalto di rara bellezza accarezza l’acqua dello stretto di Messina, su uno sfondo di natura offesa, sporcizia, case abusive, palazzi scrostati. Contraddizioni di una terra dura, aspra e incantevole, che è impossibile non amare. I suoi figli più maltrattati spesso vanno via attanagliati dall’odio e dal rancore, ma se tornano anche solo per un giorno, verranno catturati ancora e per sempre dalla limpidezza del suo mare, dai colori, dai profumi della terra, dai sapori forti che sprigionano quei monti che quasi si poggiano sul mare. La madre di Rocco è figlia di questa terra di gente caparbia, ostinata, abituata a sopportare il peso di dolori strazianti, ma anche capace di resistere. Resiliente alla crudeltà umana e della natura.
La donna aveva ormai preso la sua decisione e si trovava davanti al cancello del Tribunale di Reggio Calabria, sliding doors della sua esistenza. Superata quella soglia, avrebbe dichiarato guerra all’onorata famiglia. Guerra al sistema. Che sacrifica, per denaro e potere, vite umane e una terra orgogliosa. Guerra alla ’ndrangheta, insomma, colpendola in ciò che ha di più caro: i figli, futuri reggenti dei clan.
«Buongiorno, dovrei consegnare una lettera al dottor Di Bella. È in ufficio?». L’uomo di fronte a lei la guardava senza alcun tipo di espressione. Era un omone alto e robusto. Sul fianco, nella fondina, portava una pistola. «Sono della scorta del giudice, può darla a me. Ma chi siete? Chi devo dire?». Le parole per rispondere alla domanda non le uscivano di bocca. Era come paralizzata. Quella domanda così ovvia e banale le provocò un tremolio nelle gambe. Balbettava. Non aveva mai sofferto di attacchi di panico. Eppure avvertiva qualcosa di molto simile. Sudava freddo, tremava, vedeva le sagome sfocate. L’espressione contratta e tesa. «Mi chiamo... anzi senta, mi perdoni, dica al giudice soltanto che cerco aiuto. Sono una di quelle madri che hanno bisogno di lui. La prego, si fidi di me». Sul viso dell’agente della scorta apparve un’ombra di dolorosa comprensione. Del resto con il giudice aveva un rapporto stretto, conosceva bene il lavoro che stava portando avanti. Ed era uno sbirro, un uomo di legge, allenato a fronteggiare situazioni delicate. Così le disse di non preoccuparsi. Ci avrebbe pensato lui, e le chiese anche il numero di telefono.
La mamma di Rocco quella notte non dormì. L’attesa la tormentava. Le avrebbero creduto? E il poliziotto aveva consegnato la lettera? E il giudice Di Bella sarebbe intervenuto immediatamente? E, poi, se fossero intervenuti, se lo Stato avesse davvero fatto lo Stato, cosa sarebbe successo nella sua vita? E in quella dei suoi figli? Sempre le stesse domande. Che andavano e venivano nella sua testa, fino al mattino. Poi si alzò e preparò il caffè. Aspettò che i figli si sbrigassero e li accompagnò a scuola. Il cellulare però non squillava, dal Tribunale nessuna chiamata.
Giorni di angoscia e di inquietudine precedettero l’agognata telefonata. Il 12 dicembre 2016 il cellulare squillò. Sul display comparve un numero privato. La donna rispose in preda all’ansia. Una voce femminile le disse che il Tribunale dei minorenni aveva emesso un decreto a firma del presidente Di Bella col quale si stabiliva la decadenza della responsabilità genitoriale del padre di Rocco. Vacillò, si sentì svuotata e disorientata. Tutto era concluso. Anzi tutto iniziava.
L’alba del nuovo giorno portava con sé il brivido della liberazione.
Dal decreto del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria sull’allontanamento di Rocco insieme alla madre e alla sorella:
Rilevato che tal...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Autore
  2. Introduzione
  3. 1. Rocco
  4. 2. Civico 404
  5. 3. La moglie del boss
  6. 4. Il bambino soldato
  7. 5. Micu McDonald
  8. 6. Il Tribunale a rischio chiusura
  9. 7. Padri pentiti
  10. 8. Giovani Cumps
  11. 9. Maria Concetta Cacciola
  12. 10. Ragazze tra paura e coraggio
  13. 11. A scuola di ’ndrangheta
  14. 12. I figli dell’Invisibile
  15. 13. La lezione del carcere
  16. 14. Peppe
  17. 15. Una lettera al «Corriere»
  18. 16. Una madre scomparsa
  19. 17. Una nuova vita
  20. 18. La speranza di Rocco