Pratica dell'immaginazione attiva
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Pratica dell'immaginazione attiva

Marta Tibaldi

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Pratica dell'immaginazione attiva

Marta Tibaldi

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Che cosa è il metodo dell'immaginazione attiva junghiana e, soprattutto, in che cosa consiste la sua pratica?La recente pubblicazione del Libro rosso di Carl Gustav Jung ha risvegliato l'interesse per questo metodo, che svolge un ruolo imprescindibile nel processo di realizzazione di sé che ciascun individuo, più o meno consapevolmente, persegue nel corso della propria esistenza. Strumento di conoscenza e di trasformazione dell'intera personalità, l'immaginazione attiva junghiana aiuta a recuperare e a stabilizzare il benessere psicofisico, ma anche a dare forma a potenzialità e risorse di cui non siamo consapevoli.Jung elaborò il metodo dell'immaginazione attiva in un periodo molto difficile della sua vita, dopo la rottura, personale e scientifica, del suo rapporto con Freud.Il libro di Marta Tibaldi è un prezioso strumento per scoprire come confrontarsi in modo attivo, intenzionale e in stato di veglia con la psiche conscia e inconscia, lasciando che i diversi aspetti della personalità dialoghino tra loro e si integrino a vicenda.

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Information

Publisher
La Lepre
Year
2012
ISBN
9788896052662
i saggi
i saggi.eps
Marta Tibaldi
Pratica dell’immaginazione attiva
Dialogare con l’inconscio e vivere meglio
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© Copyright 2011 by La Lepre Edizioni
Via delle Fornaci, 425 – 00165 Roma
www.lalepreedizioni.com
Progetto grafico/Francesca Schiavoni
Realizzazione digitale/Plan.ed
www.plan-ed.it
In copertina/Salomon Trismosin, Splendor Solis (1582)
ISBN 978-88-96052-66-2
A Roberto

Premessa

Ho cercato di comunicare ciò che gli altri non vedono, ad esempio un arcobaleno di profilo.
Bruno Munari
Nel film Videocracy - Basta apparire il regista italo-svedese Erik Gandini descrive, con limpida capacità narrativa, il processo che Italia, a partire dagli anni Settanta, ha reso l’apparire televisivo misura dell’identità personale, del valore sociale, dell’esistenza.
Nella cultura dell’apparenza, l’identità individuale e quella collettiva si costruiscono infatti intorno alla visibilità televisiva della nostra immagine, al nostro essere riconosciuti dallo sguardo del telespettatore quali personaggi del piccolo schermo, qualunque sia il ruolo interpretato. A loro volta, i nuovi eroi televisivi riconoscono la propria esistenza e definiscono la propria identità a partire da quel medesimo sguardo, che è ben diverso da quello di cui si fa quotidiana esperienza quando si è televisivamente invisibili e dunque mediaticamente inesistenti.
L’inesistenza e l’invisibilità dei non-personaggi televisivi investono in modo drammatico anche la loro dimensione corporea, che diventa inconsistente fino alla vera e propria smaterializzazione. Si pensi, ad esempio, alla bassissima percezione che le persone hanno della presenza altrui in situazioni sociali quali luoghi chiusi (autobus, negozi, cinema, centri commerciali etc. ) ovvero aperti (strade, traffico cittadino etc.), a meno che la presenza degli altri non diventi fonte di frustrazione e/o di fastidio: essa stimola allora una risposta emotiva, di solito di natura aggressiva, che, tradotta in parole, potrebbe suonare così: “mi intralci... mi dai fastidio... levati di mezzo!”. Mi viene in mente, a questo proposito, l’efficacissima espressione di una giovane paziente, che si rivolgeva alle persone a lei moleste, dicendo: “Sopprimiti!”.
A proposito della natura cordiale o aggressiva del nostro modo di stare in relazione con gli altri, una vignetta di Ellekappa pubblicata il 22 settembre 2009 sul giornale La Repubblica ne è un divertente esempio. A commento delle divergenze di opinione intercorse tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e della negazione, da parte del primo, di qualsiasi dissidio con l’altro, la vignetta ne sintetizzava così la storia:
Due uomini parlano tra di loro della disputa Fini-Berlusconi. Il primo, rivolto al secondo, dice: “Al termine del faccia a faccia con Fini, pollice alzato di Berlusconi”; il secondo risponde al primo: “O forse era il medio?”.
Per quanto riguarda il “contratto sociale” che regola i rapporti interpersonali, un tempo le norme di buona educazione prescrivevano di mantenere sempre una distanza di rispetto tra sé e gli altri. Nel caso essa fosse venuta meno per qualsiasi motivo, il bon ton esortava a scusarsi per l’indebita invasione dello spazio altrui, ripristinando così la giusta misura relazionale.
In un’epoca come la nostra, nella quale ben poco si sa e si ricorda delle norme di buona educazione, è interessante notare come il concetto di distanza di rispetto sia ormai sparito dal bon ton sociale, salvo ritrovarlo, sotto altra forma, in ambiti lontanissimi come, ad esempio, i corsi, sempre più richiesti e frequentati, di autodifesa personale. Una delle prime regole che viene insegnata è quella di mantenere o di ripristinare sempre la distanza di sicurezza tra noi e gli altri; una maggiore vicinanza è consentita soltanto a una persona amica o a un partner amoroso. Mi verrebbe da dire che le regole che un tempo definivano i rapporti umani “in tempo di pace” sembrano ora definire soprattutto i rapporti umani “in tempo di guerra”.
Un’altra norma di buona educazione, ormai totalmente scomparsa, prescriveva di non fissare le persone, di non guardare nessuno con insistenza; se poi qualcuno davanti a noi fosse incorso in qualche problema imbarazzante come inciampare, scivolare etc., si doveva offrire il proprio aiuto al malcapitato senza sottolineare in alcun modo l’accaduto e, soprattutto, senza ridere! Anche questa norma rientrava tra quelle che regolavano i rapporti sociali, un codice di rispetto cui ci si aspettava che più o meno tutti si attenessero – e chi non lo faceva si qualificava da solo/a come un/una maleducato/a, una persona socialmente incompetente.
Un pallido ricordo, probabilmente del tutto inconsapevole, della giusta distanza sociale si ritrova oggi nell’uso della “linea gialla”, ovvero della “distanza di cortesia” richiesta nei luoghi pubblici: una linea di rispetto dello spazio privato altrui che demarca, appunto, il limite del comportamento cortese rispetto a quello scortese.
Ma che cosa è la cortesia? Il vocabolario spiega che la cortesia è un “complesso di qualità, tra cui rispetto verso gli altri, benevolenza verso gli inferiori, liberalità, piacevolezza di conversazione, disdegno d’ogni viltà, difesa degli oppressi e della donna, che, nell’educazione cavalleresca del medioevo, costituivano una caratteristica dell’uomo di corte”[1].
Un concetto analogo a quello di cortesia è quello di garbo: essere garbati, ovvero agire con garbo, significa mettere in atto un comportamento caratterizzato da “leggiadria, grazia, bella maniera nei movimenti, nel contegno e soprattutto nel trattare con le persone, quindi anche cortesia, compitezza”[2].
Nell’orizzonte televisivo norme di comportamento di questo genere hanno subìto una netta distorsione, e decisamente in peggio. Per esempio, da alcuni anni tra i registi televisivi è invalso l’incivilissimo uso di indulgere con la telecamera sui particolari fisici e sui comportamenti non-verbali dell’ospite di turno. La telecamera si sofferma e fissa il malcapitato, obbligandolo al controllo dei segnali del proprio corpo al limite dell’immobilità.
Ricordo di avere notato, in un dibattito televisivo nell’ottobre 2009 – si trattava della trasmissione 8 e mezzo condotta dalla giornalista Lilli Gruber – come l’allora segretario del Partito democratico Dario Franceschini, ospite in studio, fosse stato più volte ripreso dal regista mentre girava tra le mani il taccuino della trasmissione. Non appena Franceschini si rese conto che il regista fermava a lungo l’inquadratura sull...

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