La scommessa Biden
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La scommessa Biden

Massimo Gaggi

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La scommessa Biden

Massimo Gaggi

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Perché la superpotenza americana ha scelto di affidare il suo governo a un leader privo di carisma, di età avanzata e con una storia politica piena di contraddizioni? Come è potuto diventare una sorta di ultima spiaggia della democrazia americana, l'uomo su cui puntare per scuotere un Paese che vive da tempo un lento declino e a cui affidare il difficile compito di reinventare una sinistra in crisi?È accaduto più volte nella storia americana che presidenti inizialmente sottovalutati siano riusciti a far nascere dall'emergenza la spinta a cambiare il Paese. È accaduto con la reazione di Franklin Delano Roosevelt alla Grande Depressione degli anni Trenta e con le riforme di Lyndon Johnson dopo l'assassinio di JFK. Biden ci prova un'altra volta in un'era di divisioni politiche estreme e di democrazia minacciata. Una presidenza, la sua, lastricata di tante emergenze. La più importante e inedita è l'emergenza sanitaria, che trascina e trasforma quella economica (col ritorno dell'inflazione) e quella sociale. Ma anche quelle dei migranti, della sicurezza interna, del ruolo degli Usa nel mondo. Biden, il vice di Obama, un presidente avanti con gli anni che nessuno si aspettava, è l'uomo che non ha nulla da perdere e che vuole lasciare il segno. Potrà proprio lui, con la sua storia di moderato, rimettere sui giusti binari l'America e ridare una bussola alla sinistra in crisi d'identità frenando gli eccessi radicali della cancel culture? E quali conseguenze negli equilibri internazionali avranno i cambiamenti che vuole apportare?

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Information

Year
2022
ISBN
9788858148020

1.
Duttilità e debolezza di un presidente

Quando, giovane entusiasta e di belle speranze, senza molte convinzioni ma con molte ambizioni, andò dal capo del partito democratico del Delaware per chiedergli l’investitura a candidato progressista per il seggio senatoriale dello Stato, Joe Biden fu accolto con uno scetticismo ostentato, più che malcelato. Era il 1972 e lui, pivellino inesperto, non aveva ancora l’età minima, 30 anni, per diventare senatore. Li avrebbe compiuti il 20 novembre, due settimane dopo il voto, eppure era deciso a sfidare il popolarissimo Caleb Boggs, un repubblicano ex governatore e senatore da 12 anni, che l’ultima volta aveva vinto le elezioni con 20 punti percentuali di scarto. Una sfida temeraria, impossibile. Ma proprio per questo il partito gli concesse l’investitura: gli altri democratici di rango del Delaware preferivano candidarsi per incarichi elettivi – governatore, sindaco, giudice della Corte Suprema dello Stato – che consideravano alla loro portata. Tutti si tenevano alla larga da quella mission impossible, adatta per qualcuno che non aveva nulla da perdere. E il giovane Joe era un uomo ancora alla ricerca della sua identità. Solo qualche anno prima aveva concluso gli studi universitari. E con poco onore. Si era laureato nel 1968 in giurisprudenza, classificandosi 76esimo in una classe di 85 studenti. La sua tesina era stata in parte scopiazzata da una rivista giuridica: fatto che gli costerà caro anche nella campagna presidenziale del 1987-88.
Aveva fatto pratica in studi legali ma senza grande convinzione: si era occupato per un po’ di imprese ma quello della corporate law era un settore che proprio non lo appassionava. Gli piaceva di più il diritto penale, ma a difendere mascalzoni e ladruncoli non si guadagna molto. Politicamente oscillava. Erano anni in cui le differenze tra i due partiti spesso non erano marcate e lo stesso Biden racconta in una sua autobiografia che all’inizio si sentiva un repubblicano perché l’allora governatore democratico Charles Terry aveva vedute molto conservatrici sui temi razziali: era più a destra di uno sfidante repubblicano, Russell Peterson, dalle idee assai più aperte. Per questo appoggiò Peterson che alle elezioni del 1968 batté Terry, ma in seguito, detestando Nixon, allora alla Casa Bianca, si registrerà nelle liste elettorali come indipendente.
Si avvicinerà ai democratici solo più tardi, coinvolto in un forum di giovani attivisti che cercavano di riformare il partito. Ben presto ottenne una piccola carica amministrativa a livello locale: talmente minuscola da non rappresentare un trampolino verso il Senato. Biden sapeva che sfidare Caleb Boggs era un obiettivo davvero temerario: glielo dicevano anche gli amici che cercavano di dissuaderlo. Uno di loro gli raccontò un aneddoto sulla sterminata popolarità e autorevolezza del senatore in carica: per venire fuori da una lite interminabile causata da una partita di poker, quattro giocatori decidono di chiamare al telefono Boggs. Lui risponde, ascolta ed emette la sua sentenza. E tutti e quattro la rispettano senza fiatare.
Contro la popolarità e la macchina elettorale del vecchio notabile, Joe usò l’immagine felice della sua splendida famiglia – la moglie Neilia conosciuta all’università, i figli Beau di tre anni, Hunter di due e la piccolissima Naomi – e sfruttò il lavoro organizzativo di sua sorella Valerie, di tre anni più giovane di lui, che da allora sarà la manager di tutte le sue campagne.
Sul piano personale le sue armi furono la scelta acuta dei temi programmatici giusti per il suo elettorato e la simpatia innata, la facilità con cui riesce a coinvolgere, anche sul piano emotivo, i suoi interlocutori: cosa che gli consentì di fare una efficacissima politica “porta a porta” in uno Stato piccolo e facile da percorrere in lungo e in largo.
Nell’estate del 1972, mentre Biden sperimentava casa per casa la retail politics che sarà il suo forte per tutta la vita e teneva comizi perfino nelle high school a caccia di volontari e voti degli studenti maggiorenni, ma anche perché contava sulla capacità di questi giovani entusiasti di influenzare i loro genitori, io – studente liceale italiano – ero a Richmond, in Virginia. Ospite, insieme ad altri ragazzi, di una famiglia locale. Ne faceva parte un professore universitario, volontario del partito democratico. Per quasi una settimana andai con lui nei ghetti neri della città: un’America misera, fatta di case di legno malridotte, tettoie sfondate, pareti scrostate, finestre sprangate con due tavole, acqua presa direttamente dagli idranti. Quell’America che avevo visto solo nelle trasmissioni televisive sulle rivolte razziali. Il suo scopo: parlare con la gente seduta sulle scale davanti casa, convincerla che votare è importante per il loro futuro, spingerla a registrarsi. Negli Stati Uniti per votare bisogna essere iscritti alle liste elettorali e, in quegli anni, gli afroamericani che lo facevano erano pochi: per indolenza o per paura di rappresaglie da parte del potere bianco che, in Stati del Sud come la Virginia, era quasi sempre repubblicano. Il giovane docente si offrì di accompagnare con la sua auto coloro che accettavano fino all’ufficio comunale, di assisterli nelle procedure di registrazione e di riaccompagnarli a casa. E promise che il 7 novembre, il giorno del voto per le presidenziali, lui o un altro volontario sarebbero andati a prenderli per portarli al seggio.
I più scossero la testa e rifiutarono, dicendo che per loro, comunque, non cambierà mai nulla. Ma alcuni accettarono. Tornai dagli Stati Uniti entusiasta di quell’esperienza, convinto di aver assistito a uno spicchio di storia: la costruzione della campagna con la quale George McGovern, senatore del South Dakota e alfiere di una sinistra estremamente progressista (nel suo programma, tra le altre cose, la fine immediata della guerra del Vietnam e un reddito minimo garantito dallo Stato a tutti i poveri), avrebbe sconfitto l’arcigno e detestato Richard Nixon costringendolo a lasciare la Casa Bianca.
Ma il 7 novembre Nixon travolse McGovern in tutti gli Stati Uniti, dall’Atlantico al Pacifico. Una sconfitta epocale per la sinistra. Il candidato democratico vinse solo in Massachusetts e nella città di Washington. Perse perfino in South Dakota, il suo Stato. Per me fu una lezione di pragmatismo politico indelebile. Ma lo choc fu forte anche per il partito democratico, che non si affiderà mai più a un candidato così spostato a sinistra.
Fino al 2020 quando Biden presenta, coi toni rassicuranti del vecchio patriarca centrista, un programma molto spostato a sinistra rispetto alla linea seguita negli ultimi trent’anni dal partito dei Clinton e di Obama. Probabilmente già sa che molte delle cose promesse agli elettori non passeranno mai in Congresso. Ovviamente è un Biden assai diverso dal personaggio del 1972: non solo allora era molto giovane, ma era anche molto attento a non spostarsi troppo a sinistra. I giovani fan che aveva mobilitato lo avrebbero voluto più audace, ma lui sapeva che l’elettorato del Delaware non era molto progressista. Negli anni precedenti il giovane Joe si era occupato di Vietnam, per la verità solo per evitare di essere mandato a combattere (a quei tempi c’era ancora il servizio di leva obbligatorio). Ma ora che puntava al Senato era diverso: anche lui inserì nella sua piattaforma un no deciso alla guerra, insieme ai diritti civili, al riequilibrio del prelievo fiscale, a una migliore assistenza sanitaria. Diventò anche un precursore dell’ambientalismo con messaggi diversi per fasce diverse dell’elettorato: nelle città della costa atlantica diceva che se un tempo difendere le spiagge significava ripulirle da lattine e bottigliette di vetro, era arrivato il momento di combattere l’erosione che minacciava la loro stessa esistenza. Nelle città industriali del Nord, soffocate dai fumi industriali, diceva di volere più alberi, al contrario del suo avversario che chiedeva più autostrade. Tuttavia non abbracciò McGovern né le parti massimaliste del suo programma. Quando gli chiedevano cosa pensasse della proposta del candidato alla Casa Bianca di legalizzare la marijuana, se la cavava dicendo di non voler discutere di temi che distraevano l’elettorato da quelle che erano le vere priorità del suo programma.
Il 7 novembre McGovern prende poco più della metà dei voti di Nixon e sparisce dalla politica americana. Biden batte Boggs per appena tremila voti e diventa la nuova star democratica, il senatore più giovane di sempre.
Il 20 novembre spegne 30 candeline: adesso ha l’età legale che gli consentirà, all’inizio di gennaio, con l’inaugurazione della nuova legislatura, di sedere in Senato. Meno di un mese dopo, la tragedia che sconvolge la sua vita: la station wagon di Neilia viene travolta da un camion mentre lei, coi tre figli a bordo, sta andando a fare lo shopping natalizio. La moglie di Biden muore nell’incidente insieme alla piccola Naomi. Hunter finisce in ospedale col cranio fratturato, Beau se la cava con una gamba spezzata e altre ferite.
La favola in un attimo si trasforma in tragedia. Biden pensa di dimettersi dal Congresso prima ancora di entrarne a far parte, ma Mike Mansfield, leader della maggioranza al Senato, lo convince a restare in carica almeno per sei mesi: Joe accetta. Resterà in Campidoglio per i successivi 36 anni. Uscendo nel 2009 per trasferirsi nella Casa Bianca di Obama.
Comincia una storia politica molto particolare: quella di un parlamentare pendolare che diventa profondo conoscitore di tutti i meandri della Washington del potere, ma al tempo stesso non perde mai il contatto col territorio, con l’America “della porta accanto” perché, approfittando del fatto che la sua Wilmington dista soltanto un centinaio di miglia dalla capitale alla quale è collegata da una linea ferroviaria relativamente veloce, torna tutte le sere a casa. All’inizio è una necessità, unico genitore rimasto ai due figli sopravvissuti. Tre anni dopo incontrerà in un blind date, organizzato da suo fratello Frank, Jill Tracy Jacobs, che sposerà nel 1977.
Nasce la leggenda di Amtrak Joe, il senatore pendolare che diventa amico di tutti i ferrovieri della linea atlantica e familiarizza con molti passeggeri dei treni che prende due volte al giorno. È un altro pezzo della “politica al dettaglio” di un leader del Congresso dalle innate doti comunicative capace di avere una parola, un gesto per tutti. Basta andare a Wilmington – ci sono stato più volte durante le campagne elettorali – per accorgersi che è difficile trovare qualcuno che non abbia conosciuto Biden, che non abbia un ricordo o un aneddoto da raccontare.
Nei suoi 36 anni al Senato, questo parlamentare che diventerà molto influente tanto in politica estera quanto in quella giudiziaria fa anche scelte molto discutibili o chiaramente sbagliate, delle quali dopo molti anni dovrà scusarsi. Vota a favore dell’invasione dell’Iraq che fin dal primo momento appare a molti pretestuosa. E le leggi che inaspriscono le pene detentive soprattutto per i reati di droga da lui condivise, o delle quali è addirittura coautore, porteranno dietro le sbarre molti afroamericani in più, anche per reati lievi. Eppure, nonostante questo, nel 2020 gli stessi elettori afroamericani si mobilitano in massa per eleggerlo presidente.
Accusato dalla sinistra di essere troppo amico delle società che emettono carte di credito, Biden scandalizza molti progressisti per la sua scelta di accettare l’invito a pronunciare l’orazione funebre di Strom Thurmond, un senatore che si era sempre battuto a favore della segregazione razziale. Quando, nel 1991, Anita Hill accusa di molestie sessuali il magistrato Clarence Thomas del quale era stata assistente e che era stato appena nominato dal presidente Bush (padre) giudice della Corte Suprema, Biden conduce l’audizione, durante il processo di conferma della nomina presidenziale da parte del Congresso, in un modo che mette la giovane assistente in cattiva luce. Cosa della quale, poi, Biden si scuserà. Ma la nomina di Thomas viene ratificata dal Senato. Eppure nel 2020, in piena era #metoo, Biden conquista un’ampia maggioranza del voto femminile.
Poche ma brutte macchie di una lunghissima carriera politica nella quale Biden ha lavorato alacremente per varare tante norme che hanno fatto progredire gli Stati Uniti. Le sottolineiamo anche perché fanno emergere la capacità di questo leader politico non solo di sopravvivere politicamente ai suoi errori, ma di diventare addirittura, nei primi mesi della sua presidenza, il campione della sinistra e degli afroamericani: una capacità che deriva certamente dalle circostanze nelle quali la sua nomina è maturata – spazzare via, per quanto possibile, l’eredità avvelenata di Trump – ma che è anche legata alle doti umane e politiche di Biden. Gli errori, anche gravi, che ha commesso non gli hanno mai sottratto la fama di persona per bene che, quando ha sbagliato, non lo ha fatto in malafede e, poi, ha ammesso i suoi errori. Anche in Senato la sua lealtà è stata generalmente riconosciuta da alleati e avversari. Dopo la sua elezione, Bernie Sanders ha scelto di fidarsi completamente di lui, anche a costo di subire qualche attacco dai parlamentari più giovani e irrequieti della sinistra del suo schieramento: si è esposto perché ha sempre visto in Biden un galantuomo, prima ancora che un interlocutore politico.
Quanto alle capacità politiche del presidente, nei primi mesi del suo mandato Biden, facendo passare anche provvedimenti molto impegnativi e dialogando con tutte le parti politiche, ha dato la sensazione di avere la solidità e la profonda conoscenza dei meccanismi parlamentari necessarie per evitare i trabocchetti nei quali, 12 anni prima, era caduto Barack Obama. Le battaglie estive e autunnali sulle riforme economiche e sociali proposte dal presidente democratico e le dispute sull’innalzamento del debito pubblico, però, hanno di nuovo reso profondissimo il solco che separa destra e sinistra. Mentre, come vedremo, lo stesso partito democratico è stato dilaniato dalle tensioni interne con i parlamentari moderati, soprattutto i senatori Manchin e Sinema, che si sono opposti a piani di Biden da loro considerati troppo spostati a sinistra.
Il percorso già difficile di Biden diventa così davvero impervio: rischi di fallimento elevati, tra crollo della sua popolarità nei sondaggi e il rumoreggiare degli attivisti che non vedono maturare le nuove politiche sociali promesse, mentre in Parlamento i tempi si allungano e si avvicina la scadenza delle elezioni di midterm del novembre 2022. Gli stessi analisti democratici avvertono che, se non si ferma la corsa dell’inflazione che riduce il potere d’acquisto dei salari e in assenza di provvedimenti consistenti e immediati, capaci di essere percepiti dai cittadini come misure che incidono positivamente sulle loro vite, quel voto con ogni probabilità si risolverà in una sonora sconfitta per il fronte progressista. Ma su questo torneremo nelle conclusioni di questo libro.
Pur tra mille difficoltà ed errori, e con l’esigenza di trovare un punto di equilibrio, un compromesso tra le diverse anime del suo partito, Biden ha cercato di tenere fede al suo impegno di spostare a sinistra l’asse dell’azione della sua Casa Bianca: crede che questo sia coerente con le posizioni della parte più rilevante del suo partito e anche con le...

Table of contents

  1. Introduzione
  2. 1. Duttilità e debolezza di un presidente
  3. 2. Il piano e le trappole
  4. 3. Effetto Trump
  5. 4. L’appoggio di Sanders
  6. 5. La spina nel fianco: Manchin e Sinema
  7. 6. La delusione Kamala
  8. 7. Metà falco, metà colomba, nella scia di Trump
  9. 8. La tempesta woke che scuote i democratici
  10. 9. Pandemia: un’altra culture war
  11. 10. La crisi costituzionale che corrode l’America
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Gaggi, Massimo. (2022) 2022. La Scommessa Biden. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459753/la-scommessa-biden-pdf.

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Gaggi, M. (2022) La scommessa Biden. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459753/la-scommessa-biden-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Gaggi, Massimo. La Scommessa Biden. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2022. Web. 15 Oct. 2022.