Che cosa sa fare l'Italia
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Che cosa sa fare l'Italia

La nostra economia dopo la grande crisi

Salvatore Rossi, Anna Giunta

  1. 240 pages
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Che cosa sa fare l'Italia

La nostra economia dopo la grande crisi

Salvatore Rossi, Anna Giunta

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Un paese è ciò che sa fare. Gli italiani un tempo hanno saputo eccellere. Oggi il genius loci si è appannato: vale la pena di capire se e in quali modi si può rimediare.

L'economia del nostro paese sembra avere smarrito la capacità di accrescere reddito ed efficienza produttiva. Perché? Per capirlo e per avanzare delle soluzioni, gli autori mettono a fuoco alcune variabili chiave dell'economia italiana: chi genera ricchezza; che cosa, dove e come si produce; quali sono i problemi di molte imprese, familiste, poco produttive, scarsamente innovative; quali i punti di forza della nostra competitività internazionale.Far nascere nuovi imprenditori, convincere quelli che ci sono a far crescere le loro imprese, separandole dai destini della famiglia, premiare il coraggio e l'inventiva, disincentivare le rendite di posizione devono essere gli impegni prioritari della politica economica oggi in Italia. Suscitare attese favorevoli e lavorare per la loro realizzazione potrebbe liberare le energie di cui il nostro paese resta ricco.

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Information

Year
2017
ISBN
9788858128428

Capitolo terzo.
Che cosa si produce e a chi si vende

1. Manifattura o servizi? Una domanda ormai irrilevante

Nel capitolo precedente ci siamo occupati di imprese manifatturiere. Tuttavia, la distinzione fra manufatti e servizi sta sfumando: un manufatto è sempre più spesso un mero contenitore di servizi, senza i quali non avrebbe valore. Sono i servizi che ne determinano l’evoluzione qualitativa. L’esempio degli smartphone è lampante.
Il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi dell’Istat del 2015 lo documenta in modo esauriente, incentrando l’analisi sulla terziarizzazione dell’industria e sulla interconnessione tra industria e servizi, fenomeni definiti come “il tratto distintivo dell’evoluzione economica degli ultimi decenni”1. Essi sono attribuiti soprattutto alla frammentazione internazionale delle produzioni e alla loro riorganizzazione secondo catene globali del valore, di cui abbiamo parlato e parleremo in ancora maggiore dettaglio più avanti. Noi però preferiamo illustrarli qui attraverso un racconto tratto dalla storia del cinema.
Nel 1936, ottant’anni fa, uscì nelle sale un film di Charlie Chaplin intitolato Tempi moderni (Modern Times). Era, tra l’altro, una rappresentazione grottesco-satirica del “taylorismo” o “fordismo”, cioè della tipica organizzazione del lavoro degli opifici meccanici del tempo, basata sulla catena di montaggio. Il termine “taylorismo” si rifà a Frederick Taylor, fondatore dello Scientific Management; “fordismo” fa invece riferimento a Henry Ford, fondatore della omonima casa automobilistica che agli albori dell’altro secolo avviò la prima produzione di massa nella storia dell’automobile, con il celeberrimo Modello T. Ford pagava molto i suoi operai per gli standard del tempo, 5 dollari al giorno, il doppio dei concorrenti, per fidelizzarli e innalzarne il tenore di vita al punto da potersi permettere di comprare un Modello T: l’embrione del consumismo.
La fabbrica del film Tempi moderni ha un nome di fantasia, Electro-Steel, che combina i due elementi su cui si riteneva basato il progresso di quell’epoca, l’elettricità e l’acciaio.
In una delle tante scene memorabili di quel capolavoro assoluto della cinematografia mondiale si vede Charlot, protagonista del film e usuale maschera tragicomica di Chaplin, accanto a una delle catene di montaggio della Electro-Steel. La sua mansione consiste nello stringere con due tenaglie, una per mano, coppie di bulloni che la catena di montaggio, scorrendo sotto i suoi occhi, incessantemente gli mette davanti. Sempre lo stesso movimento, ruotando gomiti e polsi, ripetuto centinaia, migliaia di volte. L’operaio appena dietro di lui ha il compito di piantare i perni attorno a cui vanno stretti i bulloni, con un martellaccio. Anche lui è condannato a una eterna ripetizione dello stesso gesto: picchiare il martello sui perni. Charlot, con le sue movenze maldestre, perde spesso il ritmo ed è costretto ad arretrare finendo addosso al suo compagno di catena, che lo respinge a calcioni.
A un certo punto l’inquadratura cambia e mostra il presidente della società seduto alla sua sontuosa scrivania, intento a giocare con un puzzle; all’ingresso di una bionda e sussiegosa segretaria fa finta di sfogliare un giornale. Infine, stanco di oziare, accende degli schermi dietro di lui, che gli consentono di controllare, attraverso videocamere (a quel tempo una pura fantasia, non ancora realizzata), ogni angolo della fabbrica. Dà un ordine secco a una specie di giovane dio Vulcano a torso nudo, incaricato di manovrare il gigantesco macchinario che muove le catene di montaggio, perché aumenti la velocità proprio di quella a cui è adibito il povero Charlot. I disastri che combina Charlot si moltiplicano, in un fuoco d’artificio di gag comiche.
Non sappiamo che cosa mai quella mostruosa fabbrica produca. Sappiamo per certo che si tratta di attività manifatturiera. Vengono di sicuro prodotti degli oggetti tangibili, con l’intervento decisivo delle mani degli operai: le mani di Charlot e del suo baffuto compagno di fatica sono costantemente in primo piano. L’intero processo produttivo è descritto come infinitamente ripetitivo. Il capitalista, l’ozioso presidente, ha evidentemente investito i suoi capitali finanziari all’inizio di questa storia, acquistando l’enorme capannone e il madornale macchinario, progettato e costruito una tantum da qualcuno; quindi ha assunto migliaia di manovali generici e intercambiabili, qualche capetto per controllarne la solerzia, un singolo manovratore della macchina (il giovane Vulcano). La produzione è stata impostata una volta per tutte, ora procede ad libitum, il presidente-manager deve solo buttarci un occhio di tanto in tanto per decidere il ritmo di produzione, scegliendo un punto di equilibrio fra la resistenza psicofisica degli operai e la sua avidità di guadagno.
Inutile dire che la resistenza di Charlot crolla ben presto, gli viene un esaurimento nervoso che lo porta a gesti inconsulti tali da bloccare l’intera fabbrica, sicché viene cacciato via e da lì si dipana una storia tortuosa e appassionante che ci conduce per mano all’interno dell’America che si dibatte per uscire dalla Grande Depressione.
Chiediamoci: vi sono in quel processo produttivo degli input “di servizio”, che non si limitino all’interazione macchina-mani? Non da parte del management: non vi sono apparentemente decisioni da prendere, solo verificare che le macchine vadano, vadano, vadano, tutt’al più stabilirne la velocità. Non da parte dei tecnici: ve ne è uno solo, Vulcano, che esegue gli ordini del padrone in modo meccanico, secondo procedure prestabilite, di fatto è un “manovale” anche lui, solo lievemente più addestrato. A somigliare a un “servizio” vi è solo l’odioso compito di controllo degli operai-schiavi svolto dalla sparuta pattuglia di capetti. Il valore del loro lavoro sarà tuttavia, possiamo immaginare, una percentuale infima di quello della produzione.
Ora cambiamo film. Quattro anni prima, nel 1932, era uscito negli Stati Uniti, per diventare rapidamente un blockbuster mondiale, Grand Hotel: il capostipite di tutte le megaproduzioni hollywoodiane, zeppo di celebrità, a cominciare da Greta Garbo. Ambientato in una Berlino non ancora nazista, in piena Repubblica di Weimar. Gente che va, gente che viene, tante storie che s’intrecciano, tutte di gente ricca, naturalmente. Fra le molte, due sequenze notevoli: Greta Garbo, famosa ballerina, pensa di essere sul viale del tramonto e medita il suicidio (“I want to be alone”); al bancone del bar dell’albergo una giovane donna e due gentiluomini chiacchierano, la donna chiede dell’assenzio (scandalo!), si vede la schiena bianca del barman che le porge un calice pieno. La ballerina, il barman. Un’artista, un servitore. Le due fattispecie tipiche in cui a quel tempo si poteva concepire un’attività ...

Table of contents

  1. Prologo
  2. Capitolo primo. L’importanza del saper fare per una nazione
  3. Capitolo secondo. Come è cambiata l’economia italiana nel tempo
  4. Capitolo terzo. Che cosa si produce e a chi si vende
  5. Capitolo quarto. Come si produce
  6. Capitolo quinto. Tre casi, per esempio
  7. Capitolo sesto. I “fattori abilitanti”
  8. Capitolo settimo. La finanza
  9. Epilogo
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Rossi, S., & Giunta, A. (2017). Che cosa sa fare l’Italia ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3460436/che-cosa-sa-fare-litalia-la-nostra-economia-dopo-la-grande-crisi-pdf (Original work published 2017)

Chicago Citation

Rossi, Salvatore, and Anna Giunta. (2017) 2017. Che Cosa Sa Fare l’Italia. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3460436/che-cosa-sa-fare-litalia-la-nostra-economia-dopo-la-grande-crisi-pdf.

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Rossi, S. and Giunta, A. (2017) Che cosa sa fare l’Italia. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3460436/che-cosa-sa-fare-litalia-la-nostra-economia-dopo-la-grande-crisi-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Rossi, Salvatore, and Anna Giunta. Che Cosa Sa Fare l’Italia. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2017. Web. 15 Oct. 2022.