Consumo, dunque sono
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Consumo, dunque sono

Zygmunt Bauman, Marco Cupellaro

  1. 208 pages
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Consumo, dunque sono

Zygmunt Bauman, Marco Cupellaro

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Viviamo nella 'società dei consumatori', il cui valore supremo è il diritto/obbligo alla 'ricerca della felicità' – una felicità istantanea e perpetua che non deriva tanto dalla soddisfazione dei desideri quanto dalla loro quantità e intensità. Eppure, dice Bauman, rispetto ai nostri antenati noi non siamo più felici: più alienati semmai, isolati, spesso vessati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status, in una società che vive per il consumo e trasforma tutto in merce. Ciononostante stiamo al gioco e non ci ribelliamo, né sentiamo alcun impulso a farlo. Acuto, lucido, profetico, Zygmunt Bauman chiama ognuno di noi a ripensare al senso di impotenza che ci attanaglia.

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Information

Year
2011
ISBN
9788858102237

1. Consumismo e consumo1

Apparentemente il consumo è un fatto comune, se non addirittura insignificante. Ognuno di noi ogni giorno consuma: a volte lo facciamo con allegria – quando organizziamo una festa, celebriamo un evento importante o ci gratifichiamo per essere riusciti a fare qualcosa di particolarmente ragguardevole – ma il più delle volte «di fatto», potremmo dire di routine, senza pianificarlo granché o starci a pensare su.
In effetti il consumo, se ridotto alla sua forma essenziale del ciclo metabolico di ingestione, digestione ed escrezione, è una condizione e un aspetto permanente e ineliminabile della vita svincolato dal tempo e dalla storia, un elemento inseparabile dalla sopravvivenza biologica che gli esseri umani condividono con tutti gli altri organismi viventi. Così descritto, il fenomeno del consumo ha radici tanto antiche come quelle degli organismi viventi, ed è certamente un aspetto permanente e integrante di qualsiasi forma di vita nota dalle narrazioni storiche e dai resoconti etnografici. Apparentemente niente di nuovo sotto il sole... Qualsiasi forma di consumo considerata tipica di una specifica epoca della storia umana può essere presentata senza grande sforzo come versione leggermente modificata delle usanze/abitudini del passato/trascorse. In questo campo la continuità sembra essere la regola; salti, discontinuità, cambiamenti radicali o rivoluzionari, eventi spartiacque, possono essere (e molte volte sono) sconfessati in quanto trasformazioni puramente quantitative ma non qualitative. Eppure, se l’attività del consumare in quanto tale sembra lasciare poco spazio all’in­ventiva e agli stratagemmi, ciò non vale per la parte che il consumo ha svolto nelle trasformazioni passate e che esso svolge nelle dinamiche attuali del modo umano di essere-nel-mondo, e in particolare per il posto che esso occupa tra i fattori che determinano lo stile e per così dire l’aroma della vita sociale, e per il ruolo che ha nel determinare gli schemi delle relazioni interumane (uno dei tanti, o anche lo schema fondamentale).
Per tutta la storia umana le attività del consumo o legate ai consumi (produzione, accumulazione, distribuzione e smaltimento degli oggetti di consumo) hanno fornito una costante disponibilità di «materia prima» da cui plasmare la varietà di forme di vita e di schemi delle relazioni tra gli uomini con l’ausilio dell’inventiva culturale guidata dal­l’immaginazione. Fatto ancor più fondamentale, quando tra gli atti del produrre e del consumare si aprì uno spazio suscettibile di estensione, ciascuno di tali atti acquisì una crescente autonomia dall’altro e poté essere regolato, indirizzato e gestito da complessi di istituzioni reciprocamente indipendenti. Dopo la «rivoluzione paleolitica», che pose fine al modo di vivere alla giornata tipico dei raccoglitori e inaugurò l’era del surplus e dell’accumulazione, divenne possibile scrivere la storia dal punto di vista degli ingegnosi modi escogitati per colonizzare e gestire tale spazio.
Qualcuno ha sostenuto (e in questo capitolo si sosterrà e si elaborerà questa tesi) che un punto di rottura carico di conseguenze, che si può dire abbia meritato il nome di «rivoluzione consumistica», sia stato raggiunto millenni dopo con il passaggio dal consumo al «consumismo», nel momento in cui il consumo, come scrive Colin Campbell, ha acquisito nella vita della maggior parte delle persone una «importanza particolare, se non centrale», trasformandosi nello «scopo stesso dell’esistenza»2, e in cui «la nostra capacità di ‘volere’, di ‘desiderare’ e di ‘agognare’, e specialmente di fare esperienza ripetuta di tali emozioni, diventa l’effettivo fondamento dell’economia» della comunanza umana.
Possiamo dire che il «consumismo» è un tipo di assetto sociale che risulta dal riutilizzo di bisogni, desideri e aspirazioni dell’uomo prosaici, permanenti e per così dire «neutrali rispetto al regime», facendone la principale forza che alimenta e fa funzionare la società e coordina la riproduzione sistemica, l’integrazione sociale, la stratificazione sociale e la formazione degli individui, oltre a svolgere un ruolo di primo piano nei processi di autoidentificazione individuale e di gruppo e nella scelta e ricerca dei modi per orientare la propria esistenza. Vi è «consumismo» là dove il consumo assume quel ruolo cardine che nella società dei produttori era svolto dal lavoro. Come sottolinea Mary Douglas, «se non sappiamo perché le persone hanno bisogno di lussi [ossia di beni che vanno al di là dei bisogni di sopravvivenza] e che uso ne fanno, siamo ben lontani dal prendere sul serio i problemi della disuguaglianza»3.
A differenza del consumo, che è soprattutto caratteristica e attività di singoli esseri umani, il consumismo è un attributo della società. Affinché una società lo abbia è necessario che la capacità totalmente individuale di volere, desiderare e agognare, proprio come nella società dei produttori accadeva alla capacità di lavorare, sia distaccata («alienata») dagli individui e riconvertita/rei­ficata come forza estranea che mette in moto la «società dei consumatori» e la mantiene in rotta in quanto forma specifica di comunanza umana, definendo al tempo stesso dei parametri spe­cifici per efficaci strategie di vita individuali e manipolando le probabilità di scelta e di comportamento individuali.
Tutto ciò dice ancora poco sul contenuto della «rivoluzione consumistica». Le domande su cui occorre indagare più da vicino riguardano cosa «vogliamo», «desideriamo» e «agogniamo», e come – nel corso (e in conseguenza) del passaggio al consumismo – la sostanza del nostro volere, desiderare e agognare si modifichi.
Si pensa di solito (impropriamente, si direbbe) che gli uomini e le donne collocati nell’ambito della forma di vita consumistica desiderino e agognino, prima e al di sopra di tutto, acquisire, possedere e accumulare oggetti, valutati in base agli agi e al prestigio che si prevede possano offrire a chi li ha.
L’appropriazione e il possesso di beni che assicurino (o almeno promettano) comodità e prestigio erano forse le principali motivazioni dei desideri e delle aspirazioni umane nella società dei produttori: un tipo di società dedito alla sicurezza stabile e alla stabilità sicura e che per riprodursi nel lungo periodo faceva affidamento su schemi di comportamento individuale pensati in funzione di tali motivazioni.
In effetti la società dei produttori – principale modello di società nella fase «solida» della modernità – era orientata in primo luogo sulla sicurezza. Nella sua ricerca di sicurezza essa faceva leva sul desiderio umano di vivere in un contesto affidabile, degno di fiducia, ordinato, regolare, trasparente e al tempo stesso durevole, resistente e sicuro. Un simile desiderio era effettivamente una materia prima eccellente per costruire i tipi di strategia di vita e di schema di comportamento necessari per sopperire alle esigenze dell’epoca in cui «l’unione fa la forza» e «grande è bello»: epoca di fabbriche e di eserciti di massa, di regole vincolanti cui conformarsi, di strategie di dominio burocratiche e panoptiche che nel loro sforzo di stimolare disciplina e subordinazione si basavano sulla standardizzazione e routinizzazione della condotta individuale.
In quell’epoca possedere tanti beni spaziosi, pesanti, imperturbabili e inamovibili assicurava un futuro sicuro, un futuro che prometteva un costante rifornimento di agi, potere e prestigio personali. La grande dimensione indicava, o evocava, un’esi­stenza dotata di solidi ancoraggi, stabilmente protetta e sicura, immune dai capricci del fato, e si riteneva che ponesse la vita del suo possessore al riparo dagli incontrollabili mutamenti della fortuna. Essendo la sicurezza a lungo termine il loro principale scopo e valore, i beni acquisiti non erano destinati al consumo immediato: al contrario, si pensava di doverli proteggere dal deterioramento o dalla dispersione per conservarli intatti. Come le mura massicce di una città fortificata il cui scopo era difendere gli abitanti contro i pericoli imprevedibili e inenarrabili che si sospettavano in agguato nelle lande selvagge all’esterno, essi andavano preservati dall’usura, dai danni e dal rischio che cadessero prematuramente in disuso.
Nell’epoca solido-moderna della società dei produttori la gratificazione sembrava consistere nella promessa di sicurezza a lungo termine, molto più che nel godimento immediato: cedere a quest’ultimo aveva un retrogusto amaro di imprevidenza, se non addirittura di peccato. Attingere, in tutto o in parte, al potenziale di agio e sicurezza contenuto nei beni di consumo doveva essere rimandato, virtualmente all’infinito, per consentir loro, dopo essere stati laboriosamente raccolti, accumulati e immagazzinati come si doveva, di svolgere la loro principale funzione agli occhi di chi li possedeva: rimanere a disposizione fino al momento dell’eventuale bisogno – praticamente «finché morte non ci separi». Solo un possesso realmente durevole, resistente e immune al tempo poteva offrire la sicurezza tanto ardentemente desiderata. Solo questi beni tendevano, o almeno potevano tendere intrinsecamente, a crescere anziché a diminuire – e promettevano di essere la base sempre più durevole e affidabile di un futuro sicuro, in quanto facevano apparire il loro possessore meritevole di fiducia e di credito.
Il «consumo vistoso», efficacemente descritto da Thorstein Veblen, aveva all’inizio del XX secolo un significato molto diverso da oggi: esso consisteva nell’ostentare pubblicamente la ricchezza, sottolineandone la solidità e la durevolezza, anziché la facilità con cui i piaceri potevano essere estratti sul posto e sul momento dalle ricchezze acquisite esaurendole rapidamente, assorbendole e degustandole appieno oppure scartandole e distruggendole come in un pot­latch. I profitti e i benefici dell’o­sten­tazione aumentavano in misura proporzionale al grado di solidità, permanenza e indistruttibilità evidenziate dai beni messi in mostra. I metalli nobili e i gioielli preziosi, oggetti prediletti di ostentazione, non si sarebbero ossidati né avrebbero perso fulgore, poiché sapevano resistere alle forze distruttrici del tempo; grazie a tali caratteristiche, essi esprimevano stabilità e affidabilità. Lo stesso valeva per le massicce casseforti d’acciaio in cui venivano rinchiusi quando non erano messi in mostra, o per le miniere, gli impianti di trivellazione, le fabbriche e le ferrovie che assicuravano una costante disponibilità di splendidi gioielli garantendo contro il rischio di doverli vendere o impegnare, o ancora per i fastosi palazzi che i proprietari dei gioielli aprivano ai loro simili per farglieli ammirare da vicino e suscitare la loro invidia. Essi erano durevoli come si desiderava e si sperava fosse il prestigio sociale ereditario o acquisito che esprimevano.
Tutto ciò aveva un significato evidente nella società solido-moderna dei produttori – una società, ripeto, che puntava sulla prudenza e sulla cautela di lungo periodo, sulla durevolezza e sulla sicurezza, e soprattutto sulla sicurezza durevole di lungo termine. Ma il desiderio umano di sicurezza e il sogno di uno «stato stazionario» definitivo mal si accordano con la società dei consumatori. Nel percorso verso questa società il desiderio umano di stabilità deve trasformarsi, e in realtà si trasforma, da principale punto di forza del sistema nella sua principale passività: potenzialmente fatale, e causa di perturbazione e malfunzionamento. Difficilmente le cose potevano essere diverse, poiché il consumismo, in netto contrasto con le precedenti forme di vita, associa la felicità non tanto alla soddisfazione dei bisogni (come tendono a far credere le sue «credenziali ufficiali»), ma piuttosto alla costante crescita della quantità e dell’intensità dei desideri, il che implica a sua volta il rapido utilizzo e la rapida sostituzione degli oggetti con cui si pensa e si spera di soddisfare quei desideri; esso abbina, come sostiene giustamente Don Slater, l’insaziabilità dei bisogni all’impulso e all’imperativo di «guardare costantemente alle merci per soddisfarli»4. Nuovi bisogni richiedono nuove merci; nuove merci richiedono nuovi bisogni e desideri; l’avvento del consumismo inaugura l’era dell’«obso­lescenza programmata» dei beni offerti sul mercato e segnala la spettacolare ascesa dell’industria dello smaltimento dei rifiuti...
L’instabilità dei desideri e l’insaziabilità dei bis...

Table of contents

  1. Introduzione. Ovvero, il segreto meglio custodito della società dei consumi
  2. 1. Consumismo e consumo
  3. 2. Una società di consumatori
  4. 3. La cultura consumistica
  5. 4. Vittime collaterali del consumismo
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Bauman, Z. (2011). Consumo, dunque sono ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3461100/consumo-dunque-sono-pdf (Original work published 2011)

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Bauman, Zygmunt. (2011) 2011. Consumo, Dunque Sono. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3461100/consumo-dunque-sono-pdf.

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Bauman, Z. (2011) Consumo, dunque sono. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3461100/consumo-dunque-sono-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Bauman, Zygmunt. Consumo, Dunque Sono. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2011. Web. 15 Oct. 2022.