The Boundaries of Europe
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The Boundaries of Europe

Pietro Rossi, Pietro Rossi

  1. 266 pages
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The Boundaries of Europe

Pietro Rossi, Pietro Rossi

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Europe's boundaries have mainly been shaped by cultural, religious, and political conceptions rather than by geography. This volume of bilingual essays from renowned European scholars outlines the transformation of Europe's boundaries from the fall of the ancient world to the age of decolonization, or the end of the explicit endeavor to "Europeanize" the world.From the decline of the Roman Empire to the polycentrism of today's world, the essays span such aspects as the confrontation of Christian Europe with Islam and the changing role of the Mediterranean from "mare nostrum" to a frontier between nations. Scandinavia, eastern Europe and the Atlantic are also analyzed as boundaries in the context of exploration, migratory movements, cultural exchanges, and war. The Boundaries of Europe, edited by Pietro Rossi, is the first installment in the ALLEA book series Discourses on Intellectual Europe, which seeks to explore the question of an intrinsic or quintessential European identity in light of the rising skepticism towards Europe as an integrated cultural and intellectual region.

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Information

Year
2015
ISBN
9783110420838
Edition
1
Franco Cardini

L’Europa e l’Islam: incontri e scontri

1 La nascita dell’Islam e la rottura dell’unità mediterranea

La nuova fede religiosa nata nella penisola arabica nella prima metà del VII secolo, l’Islam, conobbe una rapida e quasi esplosiva espansione già all’indomani della morte del suo fondatore, Muhammad, nel 632. Essa modificò profondamente il volto del mondo afro-asiatico-mediterraneo. Nel giro di circa un quarto di secolo l’impero persiano fu assimilato e quello bizantino costretto a ridefinire la sua politica. Gli Arabi portatori della nuova fede occuparono le coste e parte dell’entroterra dell’Asia minore, della Siria, dell’Egitto, e l’intera Africa settentrionale, che erano le aree di reclutamento delle marinerie dell’impero romano d’Oriente. La loro conversione all’Islam si spiega anche perché si trattava di genti cristiane, ma in massima parte “eretiche” – soprattutto monofisitiche – che dato il loro credo le autorità imperiali di Costantinopoli facevano oggetto di tassazioni, di deportazioni e di altre misure repressive, mentre i nuovi arrivati permisero loro di seguire liberamente il proprio culto in quanto ahl al-Kitab, “popoli del Libro”, partecipi di una sia pur imperfetta forma di rivelazione e perciò non obbligati a convertirsi. La potenza marinara bizantina ne uscì compromessa al punto da dover spartire con i potentati musulmani la propria talassocrazia mediterranea: d’altronde, il tempestivo insorgere di discordie, scismi e guerre intestine all’interno dell’Islam impedì la trasformazione del Mediterraneo in un “lago musulmano”.
In realtà, il Mediterraneo aveva da tempo cessato di essere il mare nostrum dell’antichità, e il luogo dell’indiscusso dominio imperiale. Già la divisione dell’impero introdotta da Diocleziano aveva avuto su di esso pesanti conseguenze: la parte occidentale, più esposta alle invasioni dei popoli germanici, e diventata terra d’insediamento dei Goti sia nella penisola italiana che in quella iberica, perdette il controllo delle rotte marittime tra Gallia, Spagna e coste africane, mentre la flotta bizantina riuscì a mantenere a lungo quello del Mediterraneo orientale, almeno fino alla linea Sicilia-Sardegna. Cominciò in tal modo a delinearsi una spaccatura del Mediterraneo in due bacini distinti non soltanto geograficamente ma anche politicamente (e militarmente). Con l’espansione dell’Islam il bacino orientale divenne terreno di scontro tra l’impero d’Oriente e le nuove potenze islamiche, mentre il bacino occidentale rimase a lungo dominio di quest’ultime e delle scorrerie corsare. A partire da allora il Mediterraneo perdette la propria unità, e quello che era stato il baricentro dell’antichità, dei suoi commerci e della sua cultura, si trasformò in una frontiera, per quanto mutevole nel corso dei secoli.
Per molto tempo si è sostenuto, in base alla tesi di Henri Pirenne, che il repentino insorgere della potenza navale musulmana abbia comportato la rottura dell’unità mediterranea che fin lì aveva consentito il mantenimento delle strutture economiche e dell’omogeneità culturale dei popoli che si affacciavano sul mare: ciò avrebbe determinato un ripiegamento della vecchia pars Occidentis dell’impero su se stessa, con l’aggravarsi dei processi di recessione in atto e la sua progressiva ruralizzazione. In altri termini, i caratteri di quello che per definizione indichiamo come “Medioevo” si sarebbero presentati tra VII e VIII secolo, con l’affermarsi dell’egemonia musulmana nel Mediterraneo. In realtà, la crisi economica del VI-VII secolo, che proseguì sia pure con alterne vicende e momenti di ripresa fino al X, era il risultato di un processo lento e profondo. E proprio questo sfondo ci aiuta a comprendere anche il mutamento di ruolo subito dal Mediterraneo, nelle sue relazioni con le vicende politico-economiche delle regioni che si affacciavano su di esso.

2 La spinta islamica verso occidente

Con l’avvento al potere nel dar al-Islam dei califfi umayyadi (661-750) la corte di Damasco – città di solide tradizioni culturali greche – andò sempre più somigliando al modello di quella romano-orientale di Costantinopoli. Si andarono creando un’arte e una letteratura musulmana molto vicine alle tradizioni eclettiche della cultura bizantina, il che comportò un certo permissivismo nelle cose relative alla fede. Sotto gli umayyadi l’Islam si diffuse in Oriente fino all’Indo Kush e al corso dell’Amu Daryah, quindi agli odierni Afghanistan e Uzbekistan.
Dopo aver conquistato la Siria e la Palestina, gli Arabi sottomisero l’antica provincia romana d’Africa (Ifriqiya), comprendente la Tripolitania, la Tunisia e l’Algeria attuali, che era stata invasa nel 647; ma solo dal 663 la resistenza romano-orientale e soprattutto berbera cominciò a cedere. Ormai, una volta padroni delle coste meridionali e orientali del Mediterraneo, gli Arabi e i loro correligionari arabizzati potevano impegnarsi nella conquista delle acque e dei litorali che si trovavano al di là di esse.
Nel mondo visigoto di Spagna ci si era allarmati per tempo dinanzi alle notizie dell’avanzata araba lungo le coste dell’Africa settentrionale. Durante il concilio di Toledo del 694 il re Egica aveva lanciato l’allarme. Si andava spargendo la voce che gli Ebrei, esasperati a causa delle misure vessatorie assunte nei loro confronti, si apprestassero a dare man forte ai “nuovi barbari” che stavano avanzando dall’Oriente; imperversava intanto la guerra civile per la successione all’ultimo re di Toledo; e sembra che uno dei contendenti, Achila, rifugiatosi in Marocco, si rivolgesse per aiuto ai Mauri (così detti in quanto provenienti dall’antica Mauretania, che per gli Arabi era al-Maghreb, l’”Occidente”), cioè ai Berberi islamizzati alla testa dei quali c’era una non numerosa aristocrazia araba. Erano appunto questi Mauri che la successiva epica iberico-latina avrebbe chiamato los Moros; ma essi sarebbero stati conosciuti anche come saraceni o agareni, dai nomi biblici della moglie e della concubina di Abramo.
Fu probabilmente alla fine del luglio del 711 che una grossa flotta musulmana prese terra nella baia di Algesiras, che già l’anno prima era stata razziata. Entro il 720 anche la Catalogna e la Settimania, vale a dire tutti i territori della monarchia visigota a sud e a nord dei Pirenei, erano occupate, anche se tra le asperità dei Pirenei e dei Cantabrici sopravvivevano dei focolai di resistenza cristiana. Dalla Spagna alla Gallia meridionale, dove i Franchi nominalmente dominavano dall’inizio del VI secolo ma le istituzioni erano fragili e le strutture sociali labili, il passo poteva esser breve. Dopo aver occupato Narbona nel 718, gli Arabi si presentarono dinanzi a Tolosa nel 721 e conquistarono Nîmes e Carcassonne nel 725. Ormai, l’intera Provenza col bacino del Rodano era teatro delle loro gesta. Secondo una tradizione radicata, un raid musulmano – con ogni probabilità diretto a Tours, dove nel santuario di San Martino era custodito un ingente tesoro – venne fermato a Poitiers dal “Maestro di Palazzo” del regno merovingio d’Austrasia, Carlo Martello: ma la battaglia, combattuta nel 732 o nel 733, è in sé meno importante del mito cui ha dato origine. Ne è prova il fatto che, anche dopo quell’episodio, gli attacchi dei “mori” alle città gallo-meridionali continuarono. Le scorrerie arabo-berbere provocarono diverse reazioni nel mondo franco, proprio a partire dalle continue campagne di Carlo Martello: ma il doppio gioco e il tradimento imperavano, per cui è impossibile parlare di vere e proprie spedizioni “dei Franchi contro l’Islam”.
Al pericolo costituito dai “mori” di Spagna, che a loro volta non riuscivano ad esprimere una compagine unitaria, la dinastia dei discendenti di Carlo Martello – che si era sostituita a quella dei Merovingi – doveva la sua fama e la sua gloria. Ma il rischio di un’invasione islamica proveniente dai Pirenei era, tra VIII e IX secolo, in pratica nullo. Al contrario, era stato semmai re Carlo, nipote del Maestro di Palazzo, a tentare nel 776 d’inserirsi nelle lotte fra i piccoli emirati aragonesi. Quell’impresa si era però conclusa male, ma era destinata a entrare nella leggenda: appartiene ad essa il celebre episodio dell’imboscata di Roncisvalle, durante la quale sarebbe caduto un collaboratore e parente di Carlo, il comes Rolando, che avrebbe dato luogo alla più tarda, celebre Chanson de Roland, uno dei testi epici fondamentali del Medioevo. In realtà, i guerrieri franchi vennero battuti in quell’occasione non già da Musulmani, bensì da montanari baschi cristiani, ostili alla marcia di un esercito straniero attraverso le loro terre.
Carlo riuscì a organizzare a sud dei Pirenei una marca di confine, la marca di Catalogna, con il ruolo di testa di ponte per una possibile espansione nella penisola iberica: grazie ad essa l’intera area pirenaica passava sotto il controllo franco. Nel terzo decennio del secolo VIII la spinta dell’Islam – esteso ormai dall’Indo all’Atlantico, dal Caucaso al Corno d’Africa – dava segni di stanchezza, aggravati dalla fine della dinastia umayyade, sconfitta e travolta de quella rivale degli abbasidi, di origine arabo-persiana, che spostò da Damasco a Baghdad, e quindi sensibilmente ad est, il centro dell’impero musulmano.
Fu il primo califfo abbaside, al-Mansur, a fondare sul fiume Tigri Baghdad, la nuova capitale: il baricentro della nuova dinastia si spostava nell’area mesopotamico-iranica. Ciò sottintendeva un programma di asiatizzazione del califfato, con l’abbandono del modello culturale bizantino seguito dagli Umayyadi e il crescente disinteresse per un’espansione verso quell’Occidente che senza dubbio appariva povero, incolto, barbarico. Veniva così a indebolirsi la pressione musulmana sulla parte occidentale del Mediterraneo, anche se un membro della famiglia califfale decaduta riuscì a raggiungere la penisola iberica e a fondarvi in Córdoba un emirato (dall’arabo amir, “principe”) che riuscì gradualmente a imporre la propria egemonia sulla penisola iberica e sul Maghreb, tanto che nel 929 l’emiro Abd ar-Rahman poté a sua volta assumere il titolo di califfo.
La più potente fra le dinastie che si affermarono nel Maghreb fu quella degli Aghlabiti di Kairuan: in teoria un governatorato per conto degli Abbasidi, di fatto autonoma e a capo di un territorio che copriva, dai primi del IX secolo, l’attuale Tunisia e l’Algeria orientale. Tra le principali imprese della dinastia aghlabita vi fu la conquista della Sicilia. L’invasione partì nell’827 dall’emirato di Tunisi, ma solo ai primi del secolo successivo i Musulmani completarono la conquista: se Palermo era già presa nell’831, Siracusa non cadde che nell’878. Nell’829 essi assalirono il porto di Roma, Centumcellae, e da questo le bande di predatori colpirono la Tuscia, la Maremma, la Sabina, giungendo fino a saccheggiare le basiliche suburbane di San Paolo e di San Pietro.
Le scorrerie nell’Italia meridionale e poi anche lungo le coste tirreniche si susseguirono tra il secolo IX e l’inizio dell’XI. Di solito l’obiettivo degli incursori era la razzìa rapida, il prelievo di gente prevalentemente giovane con cui alimentare il commercio degli schiavi, l’occasionale imposizione di tributi e di riscatti; più di rado il raid aveva come esito l’impianto di un “nido” corsaro, cioè di una piccola colonia commerciale-militare. Talvolta si trattò però anche di insediamenti duraturi, come nel caso delle isole mediterranee di Creta, Malta, Sicilia e dell’arcipelago delle Baleari, tutte conquistate nel corso dei secoli IX-X e mantenute più o meno a lungo.
Intanto, nel corso del X secolo l’emiro Abd ar-Rahman III, che aveva guidato la dinastia neo-umayyade di Córdoba al massimo splendore, era riuscito a estendere il suo potere anche su parte del Maghreb occidentale. La penisola iberica si presentava, con le sue comunità urbane dinamiche alla ricerca di intense relazioni commerciali con i paesi sotto controllo musulmano, di modo che in questa circolazione anche il mondo occidentale diventava partecipe dei ricercati prodotti d’Oriente. Le città della penisola iberica ebbero intorno al Mille rapporti diversi con il mare: da Barcellona a Siviglia fino alla costa atlantica i centri urbani svolsero ruoli diversi nel risveglio del commercio occidentale. Córdoba, la capitale del califfato neo-umayyade iberico, superava nel secolo X tutte le altre città della penisola, ed era collegata ad esse da una rete di strade con un rapido sistema di corrieri appositamente addestrati.
Nel califfato umayyade Arabi e Berberi non si erano però mai propriamente fusi tra loro: la fiera aristocrazia di coloro che si consideravano i soli autentici eredi del Profeta disprezzava i parvenus africani. Tuttavia era ben presto prevalsa una moderata integrazione con i discendenti dei Latini, dei Celti e dei Germani: la vera distinzione qualificante restava quella tra i Musulmani discendenti dei conquistatori, gli abitanti locali guadagnati in tempi diversi alla fede coranica (i muwalladun) e i Cristiani rimasti fedeli alla loro religione ma arabizzati nella lingua e nei costumi, per quanto sovente non dimentichi del latino o meglio dell’idioma volgare che da esso si era sviluppato (i musta’riba, che gli occidentali conoscono meglio con il termine di “mozarabi”).

3 La circolazione delle merci e delle culture

L’importanza assunta dal commercio arabo nel Mediterraneo risulta in primo luogo dalla diffusione delle monete musulmane, che ben presto affiancarono e in molte aree soppiantarono l’egemonia del denarius aureo bizantino, il celebre “iperpero” o “bisante”. A somiglianza del denarius, il dinar arabo pesava 4,25 grammi d’oro: ma più diffuso di esso era il quarto di dinar, il ruba’i, che s’impose rapidamente non solo in Sicilia ma anche nell’Italia meridionale, dove assunse il nome di tari (“fresco”, ossia moneta appena coniata), e dove Amalfitani e Salernitani ne producevano imitazioni. Le specie monetarie argentee erano essenzialmente rappresentate dal dirahm (il nome, passato attraverso il persiano, deriva dal greco “dracma”) di grammi 2,90 e dalla piccola kharruba di 2 decigrammi. Anche nella lontana Rus’, tra il Dnieper e il Don, circolava la moneta araba: meno l’aurea, molto però quella argentea. Attraverso il mondo musulmano giungevano in Europa le merci preziose provenienti dall’Africa e soprattutto, lungo la via delle spezie e la via della seta, dal continente asiatico. L’Europa del tempo, invece, non possedeva né produceva merci d’esportazione verso il mondo bizantino o quello arabo-berbero musulmano: se le aristocrazie del tempo volevano importare qualcosa da quelle aree (e si trattava sempre di merci lussuose e costose), dovevano pagare in oro, un metallo che, salvo in casi eccezionali, né le monarchie romano-barbariche prima, né l’impero carolingio e i regni posteriori si sognavano di coniare. La disponibilità aurea del mondo occidentale si assottigliò pertanto paurosamente, e la bilancia commerciale dell’Occidente nei confronti dell’Oriente rimase a lungo passiva; soltanto nel corso dell’XI secolo qualcosa cominciò a cambiare al riguardo.
Il commercio arabo-musulmano tra IX e X secolo era d’altronde, per queste ragioni, poco interessato all’Europa occidentale. Tuttavia c’era una merce apprezzata dagli Arabi e prodotta dai “Franchi” (in tal modo, faranj, erano chiamati tutti gli Europei occidentali, mentre i Greco-bizantini erano detti rumi, “romani”). Tale merce era il ferro, sia in lingotti sia in oggetti forgiati, anzitutto armi – di cui il mondo orientale era invece carente. Le “spade franche”, prodotte soprattutto nella Germania sud-occidentale e nell’Italia settentrionale, erano ambite per le doti di solidità e di bellezza delle loro lame paragonabili solo al gauhar, l’acciaio bianco yemenita, o al pulad, l’acciaio azzurro indiano. Tuttavia spesso le spade venivano acquistate, ma poi lavorate di nuovo, passate attraverso le forge specializzate musulmane, magari ageminate con tecniche raffinatissime, come nel caso delle spade e degli acciai “di Damasco” o “di Toledo”. Un’altra merce proveniente dal “paese dei franchi” o dal mondo bizantino era il legname, essenziale per i cantieri musulmani piuttosto a corto di alberi di alto fusto. Dalla medesima area provenivano all’Islam cera, miele, pellicce, canapa e soprattutto la pregiatissima ambra che dava il suo nome al fascio viario – prevalentemente marittimo e fluviale – dal Baltico al Bosforo.
Se il mondo islamico si presentò al proscenio del secondo millennio della nostra era molto frazionato sotto il profilo politico, straordinario fu invece il suo ruolo di mediazione, di originale rielaborazione e di sintesi sotto il profilo scientifico e culturale. “Cercate la scienza dovunque si trovi, fino in Cina”: questa sarebbe stata una raccomandazione del Profeta ai suoi fedeli. La straordinaria capacità dei Musulmani di metabolizzare le culture con le quali erano venuti in contatto dall’Arabia al bacino dell’Indo e oltre, e dal Caucaso al Corno d’Africa e alle colonne d’Ercole, permise loro di sviluppare tra VII e XVI secolo una civiltà straordinariamente flessibile e multiforme, che entrò in vario modo in relazione con quelle circostanti. Ciò vale soprattutto per quella “latina”, la quale contrasse nei confronti dell’Islam uno straordinario debito di riconoscenza. Per il suo tramite essa poté rientrare in contatto non soltanto con il patrimonio filosofico-scientifico ellenistico, ma anche con molti tesori delle culture persiana, indiana e cinese, fino ad allora estranei al mondo mediterraneo. Non si deve pensare soltanto ai tre califfati di Baghdad, di Córdoba e del Cairo, centri prestigiosi di studio con le loro “madrase” e le loro immense biblioteche; esistevano anche molti principati musulmani i quali, pur prestando formale ossequio a uno di essi, vivevano in maniera autonoma, ed erano a loro volta promotori e protettori di centri di elaborazione culturale, da Bukhara e Samarcanda fino a Kairuan e a Marrakesh.
La personalità di maggior rilievo nel mondo culturale musulmano di questo tempo è soprattutto il filosofo e medico Abu ‘Ali al-Husayn Ibn Sina, che gli occidentali conoscono con il nome di Avicenna, il cui pensiero si radicava nella teologia per espandersi però verso la matematica, la geometria, le scienze naturali, la musica, l’astronomia. La sua opera più nota – in realtà un manuale di medicina, conosciuto col nome greco di Kanon – divenne nella sua versione latina il libro di testo delle scuole mediche europee fino al Settecento. Del resto, la letteratura musulmana di questo periodo fu soprattutto scientifica: trattati di storia, di geografia, di astronomia, di medicina, di architettura, ne sono gli esempi più importanti. I geografi arabi del X-XI secolo conoscevano bene la terra e viaggiavano dalla Cina al Circolo polare e all’Africa equatoriale trascrivendo le loro osservazioni in testi che restano classici nella storia delle esplorazioni. In generale, la cultura scientifica musulmana rielaborò il sapere greco antico aggiungendovi i portati di quelli persiano, indiano e cinese: tra i suoi protagonisti furono Geber (Giabir ibn Hayyan), fondatore dell’alchimia; il matematico al-Kawarizmi, da cui l’Occidente ha tratto la parola “algoritmo”, nel senso di operazione aritmetica; e il filosofo al-Farabi. A questa letteratura scientifica si accompagnava una costellazione di opere poetiche e narrative, spesso a carattere popolare. Il fattore unificante della lingua araba – al tempo stesso idioma religioso-teologico, giuridico, politico e scientifico (i fedeli potevano leggere e recitare il Corano soltanto nel...

Table of contents

  1. Discourses on Intellectual Europe
  2. Titel
  3. Impressum
  4. Foreword by Series Editor Günter Stock
  5. Inhaltsverzeichnis
  6. Premessa
  7. Foreword
  8. Il Mediterraneo da “mare nostrum” a frontiera tra civiltà
  9. The Mediterranean from “Mare Nostrum” to Frontier between Civilisations
  10. L’Europa e l’Islam: incontri e scontri
  11. Europe and Islam: Encounters and Confrontations
  12. The Conquest of the North
  13. Die Ausdehnung nach Osten
  14. The Expansion towards the East
  15. Europa und das Osmanische Reich
  16. Europe and the Ottoman Empire
  17. La Russia tra Europa e Asia
  18. Russia between Europe and Asia
  19. Europe and the Atlantic
  20. L’Europeizzazione del mondo e il suo declino
  21. The Europeanisation of the World: Its Rise and Decline
  22. The Authors
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[author missing] (2015) The Boundaries of Europe. [edition unavailable]. De Gruyter. Available at: https://www.perlego.com/book/608289/the-boundaries-of-europe-pdf (Accessed: 14 October 2022).

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