1. QUANDO CI CREDEVAMO
Lei ha vissuto la ricostruzione, gli anni dello sviluppo italiano con il miracolo economico, gli anni della crisi e del rilancio, fino al periodo di declino e di recessione. Come riassume questo percorso?
Sono nato nel 1939 e quindi la mia etĂ della ragione (se mai vi è stata) coincide con la stagione repubblicana. Nella mia felice infanzia e poi adolescenza mi occupavo ovviamente di quello che interessa ai bambini e agli adolescenti. Alla fine del liceo, a Reggio Emilia, e soprattutto negli ultimi anni dellâuniversitĂ , a Milano, ho cominciato ad interessarmi sempre piĂš intensamente di politica e di economia. Erano gli anni della grande speranza. Alla fine degli anni Cinquanta, quando ho frequentato lâUniversitĂ Cattolica, Milano sembrava imitare New York: tutto era possibile. Il Paese, tra tensioni e scontri, cambiava per il meglio: tutto era in crescita, sia nelle aree tradizionali che nei settori nuovi. Si producevano sempre piĂš automobili e sempre piĂš elettrodomestici ma, soprattutto, non vi era paura del nuovo. Câera la certezza della speranza, nessun dubbio sulla crescita, e un diffuso ottimismo sullâascesa delle categorie piĂš modeste, dagli operai ai contadini, nonostante le tensioni sociali, talvolta anche aspre. Una scommessa sul futuro che non era limitata alla borghesia. Anzi, lâascensore sociale sembrava poter funzionare per tutti. Ă questa la grande diversitĂ con lâoggi. Si è trattato di un periodo unico della storia italiana. Le precedenti fasi di espansione, per esempio il periodo giolittiano, erano limitate ad alcune zone e ad alcuni settori e non coinvolgevano lâintera societĂ . Lo sviluppo precedente riguardava solo una minoranza del Paese. Si trattava di unâespansione di ĂŠlite o comunque di categorie limitate. Quello che è avvenuto negli anni Cinquanta-Sessanta è stato invece un aggancio al mondo. Una modernitĂ diffusa. Una grande apertura non solo intellettuale, ma anche nella vita di ogni giorno. Era tutto in movimento e, soprattutto, nessuno pensava che lo sviluppo potesse interrompersi.
Ă stata quella la stagione in cui lâItalia ha avuto la possibilitĂ di affrontare alcuni nodi mai sciolti, lâopportunitĂ di raddrizzare il legno storto, se non dellâumanitĂ â come diceva Isaiah Berlin â almeno di alcuni mali storici del Paese?
Quel momento magico è stato giustamente chiamato âmiracolo economicoâ. Quando, nel 1964, entrò nel nostro vocabolario la parola âcongiunturaâ, dal tandem Carli-Colombo scoprimmo che non era scritto in cielo che dovessimo sempre procedere con uno sviluppo lineare e infinito. Tuttavia anche quando lo sviluppo si interruppe, vi era la convinzione che il cammino sarebbe presto ripreso, perchĂŠ nel frattempo si era risvegliata tutta lâEuropa. LâItalia stava cambiando, sia pure con grandi sacrifici, anche per effetto dellâinfluenza dellâEuropa. Uno dei miei ricordi piĂš vivi dei tempi dellâUniversitĂ Cattolica di Milano era la folla di emigranti che venivano assistiti nella vicina caserma di polizia in piazza SantâAmbrogio. Ogni giorno passavano centinaia di lavoratori che andavano allâestero, verso la Francia o la Germania. Partivano, ma con la speranza, in molti casi realizzata, di tornare rapidamente. E anche io ci credevo perchĂŠ ero sotto lâinfluenza di un ricordo della mia adolescenza a Reggio Emilia, quando chiusero le Officine Reggiane che, durante la guerra, erano arrivate a impiegare 12 mila addetti. Fu un momento di disperazione, in una cittĂ di 110 mila abitanti ogni famiglia aveva uno o piĂš lavoratori in quella grande fabbrica. Molti papĂ dei miei compagni di scuola partirono allora per andare allâestero. Molti verso Saint-Ătienne, dove le locali acciaierie e officine meccaniche pesanti avevano bisogno di mano dâopera ben addestrata. Partirono tutti assieme ma, dopo un anno, cominciarono a tornare e tornarono quasi tutti perchĂŠ, nel frattempo, nelle cittĂ emiliane era cominciata unâepoca nuova. Nel mio quartiere câera uno scantinato che chiamavano âla Rettificaâ dove andavo a curiosare: si mettevano a posto gli ingranaggi, si ârettificavanoâ i macchinari vecchi e poi, quasi senza rendersene conto, si cominciavano a fare cose nuove. Si affrontavano con serenitĂ anche le emergenze piĂš drammatiche, perchĂŠ tutto sembrava a portata di mano.
Eravamo la Cina dellâEuropa?
Come tasso di crescita sicuramente. Ma anche come autostima. I discorsi dei ragazzi cinesi, studenti alla Business School di Shanghai, sono identici ai nostri di allora. Sentono di poter fare tutto, rifiutano le lettere con le proposte di lavoro perchĂŠ hanno la certezza che ne arriveranno di migliori. Uno mi ha spiegato che, nella sua vita, ha programmato di essere il primo al mondo nella costruzione di vetture davvero speciali: ambulanze con unitĂ cardiache, macchine per lo spegnimento di incendi provocati da prodotti chimici particolari, ecc. Stravagante? Forse sĂŹ, ma i miei coetanei di allora non avevano sogni molto diversi da quelli dei giovani cinesi di oggi.
Lâinnovazione non faceva paura?
No, la grande differenza con il presente è che allora lâinnovazione tecnologica portava lavoro. Oggi, almeno qui da noi, il progresso tecnologico sta diventando simbolo di distruzione di lavoro.
Le due leve dello sviluppo negli anni Cinquanta sono state la programmazione economica e lâimpresa pubblica, legate a personaggi come Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Câera un disegno illuministico guidato dallâalto?
No, non câera una classe dirigente che prevedeva e dirigeva il cambiamento economico. La politica non guidava lo sviluppo, ma lo seguiva con grande attenzione concentrandosi soprattutto nellâoffrire un rapporto con i riferimenti ideologici che stavano alla base dei grandi partiti popolari. Senza dubbio câera fiducia nella programmazione come una necessitĂ razionale, ma, in fondo, si pensava che le cose si sarebbero messe a posto da sole, soprattutto in periferia. Quella stagione mi ha segnato in profonditĂ perchĂŠ mi ha trasmesso un senso di ottimismo, mi ha impresso nella mente il messaggio (non vero ma utile) che le crisi sono una parentesi nel cammino dello sviluppo. Ă certo una convinzione anti-storica. Lo studio piĂš approfondito della storia ti fa capire che il progresso non è mai un processo lineare: ci sono gli strappi, le rotture, le cadute, gli alti e i bassi. Però lâottimismo è una forza in sĂŠ: è importante avere fiducia. Crederci.
E noi italiani, quando abbiamo smesso di crederci?
Un momento preciso non câè. Ă successo progressivamente. Anche il â68 non è stato vissuto, nemmeno dai giovani, come una rottura definitiva del processo di sviluppo ma come la necessitĂ di un suo cambiamento. Le difficoltĂ sono arrivate dopo. Le speranze di cambiamento sono state via via soffocate, ma con un processo lento che ha costruito un sentimento di rassegnazione. Al termine di questa trasformazione la complessitĂ del mondo e lo sviluppo non sono piĂš apparsi come lineari. Difficile trovare le ragioni per cui tutto ciò è avvenuto. Non è un caso che gli anni del miracolo economico abbiano una precisa datazione e quelli della successiva perdita di vigore non abbiano un inizio e neppure una definizione condivisi.
Lei come li definirebbe?
Gli anni dellâassestamento, dellâadattamento, e poi della rassegnazione. Ă stato un rassegnarsi progressivo alla perdita di energia, al rallentamento, interrotto soltanto dalle illusioni degli anni Ottanta, quando i grandi magazine internazionali dedicavano le copertine ai capitani di ventura come i nuovi conquistatori. Gli imprenditori sono apparsi come gli eroi di un nuovo rinascimento, fondato solo sullâillusione e su una descrizione falsata di quanto stava avvenendo nel mondo. Lâascesa dellâeconomia e della societĂ italiana negli anni Cinquanta-Sessanta è stata lineare e intensa, lâassestamento e poi il passaggio verso la stagnazione si è invece compiuto tra alti e bassi. Quello che è piĂš grave è che per costruire una di queste stagioni di ascesa momentanea, negli anni Ottanta, è stato devastato il bilancio dello Stato. Ă stato lanciato allâopinione pubblica il messaggio che lâinflazione fosse un unguento miracoloso e che il deficit potesse correre allâinfinito.
Non ci sono mai stati periodi di ripresa?
Certamente un momento di riconquista delle speranze collettive è stato lâingresso nellâeuro negli anni Novanta: dopo un lungo periodo di difficoltĂ tornava lâidea, giusta, che se si riaffermava una speranza collettiva, potevamo stare al passo degli altri paesi europei. La crisi economica invece ci ha di nuovo differenziato, perchĂŠ il debito pubblico ha reso insopportabile il peso per lo Stato. Le cause di questo progressivo scollamento sono infinite. La maggiore, per me, sta nellâarretratezza del nostro sistema scolastico, insieme alla tradizionale debolezza della cultura politica. Ă a scuola che abbiamo perso la gara della modernitĂ e nelle scelte della classe dirigente la possibilitĂ di porvi rimedio.
Si riferisce anche alla sua formazione? La sua famiglia, i nove fratelli, la tribĂš sterminata di figli e nipoti, è una storia tipicamente italiana: nonni contadini, il padre Mario lâunico ad aver terminato gli studi con la laurea in ingegneria, voi figli tutti laureati e professori universitari. Lei ha studiato a Milano, alla Cattolica, che negli anni Cinquanta ha costruito la classe dirigente del Paese.
Non solo lâuniversitĂ , ma soprattutto il collegio si fondava su accurati processi di selezione. Occorrevano medie elevate, i posti erano pochi, le ĂŠlites si formavano nello studio ma anche attraverso un dibattito continuo e intenso. E si attingeva veramente da tutta lâItalia. Si trovavano a studiare ragazzi spesso provenienti da famiglie realmente povere, sia settentrionali che meridionali, con un assistente spirituale che era avanti di secoli, con un senso di libertĂ , modernitĂ e pluralismo unico per quei tempi, e anche per quelli successivi.
Câera la politica?
Câera una naturale tendenza prevalente verso la Democrazia cristiana, ma câerano anche molte eccezioni, e soprattutto un fortissimo dibattito interno tra le diverse correnti culturali. Molti di noi facevano il tifo per il disegno del centrosinistra. Lo vedevamo come il volto politico dello sviluppo economico. Lâallargamento dei protagonisti politici nel campo da gioco che doveva accompagnare la crescita del Paese.
E sul piano religioso?
Câera la proposta di un cattolicesimo libero, non conservatore. I giovani professori, Siro Lombardini, il giovanissimo assistente Beniamino Andreatta, erano il segno di un cambiamento di cultura economica che correva in parallelo a quello religioso. Lâorizzonte guardava molto allâestero: Giuseppe Lazzati, monsignor Carlo Colombo, erano tutti molto legati intellettualmente al cattolicesimo francese. Leggevamo il teologo tedesco Romano Guardini, ma il punto di riferimento era la rivista âEspritâ: Jacques Maritain, Emmanuel Mounier e poi il domenicano Marie-Dominique Chenu. Il cattolicesimo francese era fecondo, combattivo, non ancora in crisi.
Nasce da questa radice la definizione di âcattolico adultoâ che lei utilizzò quando, nel 2005, rifiutò di seguire le indicazioni di voto della Cei sulla fecondazione assistita? Per far fallire i referendum (come poi avvenne) i vescovi fecero campagna per lâastensione, lei invece andò a votare...
Fu considerata una definizione esplosiva, invece è stata la logica conseguenza della formazione ricevuta allâUniversitĂ Cattolica, unâespressione assolutamente naturale del credente impegnato nel mondo. Quella frase mi è costata molto, anche se oggi è ritornata ad assumere il suo significato semplice e originario della necessitĂ di interpellare sempre e a fondo la propria coscienza. PiĂš ci penso, piĂš sono contento di averla detta! Ma a partire dagli anni Novanta non câera disponibilitĂ allâascolto: il mondo cattolico sembrava modellato su un pensiero unico. Non câera piĂš dibattito: tutto arrivava dallâalto. Per anni nelle riunioni della Conferenza episcopale italiana non ci sono stati confronti o discussioni. In quel contesto la mia è apparsa come una scelta di ribellione, ma era quello che mi ero sempre sentito predicare sulla necessitĂ di essere responsabili delle proprie azioni e di assumersi il rischio delle scelte personali. Mi sono definito âcattolico adultoâ in modo spontaneo, non pensato; per me era del tutto normale e quasi ovvio, il riflesso della mia educazione nella quale avevo cercato di proseguire anche dopo il mio ritorno, una volta laureato, a Reggio Emilia, durante gli anni del Concilio. Era un discorso addirittura banale, una frase pronunciata anche da Pio XII e da padre Agostino Gemelli, non certo percorsi da tentazioni rivoluzionarie. Tutti eravamo stati educati al primato della coscienza.
Da quando conosce Camillo Ruini, anche lui reggiano?
Beh, da sempre... fin da quando sarebbe stato certamente dâaccordo sullâespressione âcattolico adultoâ.
Nel 1969 è stato don Ruini a leggere lâomelia davanti a lei e a sua moglie Flavia, al vostro matrimonio.
SĂŹ, ma lo conoscevo almeno dal 1964, da quando tornai a Reggio da Londra. Avevamo animato insieme un circolo chiamato âLeonardoâ, unâassociazione avanzata, molto aperta alla cittĂ , con una grande attenzione sia alla politica locale che ai temi ecclesiali. Chiamammo a Reggio tutti i teologi del Concilio. Una volta io e Flavia andammo a prendere il grande teologo domenicano padre Chenu al Convento di San Domenico di Bologna con una Fiat 850. Mi vengono ancora i brividi a ricordarlo: la macchina si ruppe, Flavia e il grande teologo fecero lâautostop, io rimasi in mezzo alla strada ad aspettare i soccorsi. Era un altro mondo. Tra me e don Ruini câera un rapporto personale molto forte. Ha parlato al nostro matrimonio, ha battezzato i nostri figli e tutti gli anni a Natale passava a salutare lâintera tribĂš.
Comâè possibile, allora, una rottura cosĂŹ violenta dopo lâingresso in politica e la nascita dellâUlivo?
Non ho mai parlato di questo anche perchĂŠ non vi è mai stato uno scontro personale ma, piuttosto, una divergenza crescente sulla interpretazione della societĂ italiana. Alla radice della sua visione politica vi era non solo un profondo e radicale anti-comunismo, ma anche lâidea che la Chiesa abbia una sostanziale necessitĂ ...