La battaglia tra Islam e capitalismo
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La battaglia tra Islam e capitalismo

Sayyid Qutb

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La battaglia tra Islam e capitalismo

Sayyid Qutb

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La battaglia fra Islam e capitalismo è un pamphlet pubblicato in Egitto nel 1952, a pochi mesi dal colpo di Stato che avrebbe visto salire al potere il colonnello Nasser.
La prima parte dell'opera rappresenta un esplicito J'accuse contro le forze politiche responsabili, secondo l'autore, della crisi economica e delle sperequazioni sociali imperanti nel paese durante il secondo dopoguerra.
Nella seconda parte, Qutb delinea i tratti essenziali di un sistema sociale, economico e politico che dipinge come alternativo e migliore rispetto al capitalismo e al comunismo: la "terza via" dell'Islam.

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Information

Year
2016
ISBN
9788865125175

Le grandi tematiche de La battaglia fra Islam e capitalismo

Il fallimento del sistema liberale


La battaglia fra Islam e capitalismo è la prima opera pubblicata da Sayyid Qutb dopo il suo rientro dal viaggio americano, nel 1951. Il momento della pubblicazione non è privo di importanza; il libro è stato dato alle stampe, infatti, in uno degli anni più turbolenti della storia contemporanea dell’Egitto, al culmine di un periodo segnato da una grave crisi economica e dall’instabilità politica.
“L’esperimento liberale” iniziato con la rivolta del 1919, che aveva visto nel 1923 l’instaurazione di una democrazia parlamentare di modello europeo, poteva ormai dirsi fallito. Pochi mesi dopo la pubblicazione de La battaglia, il colpo di Stato militare guidato dagli Ufficiali Liberi pose fine alla monarchia e al parlamentarismo, aprendo una nuova pagina nella storia dell’Egitto.
Il fallimento del sistema liberale significò innanzitutto il fallimento del Wafd, il partito nazionalista egiziano, fondato dall’eroe della rivoluzione del 1919 Sa‘ad Zaghlul.[1] All’indomani dell’indipendenza, questo partito poteva vantare un seguito popolare incontrastato, che attraversava tutte le classi e univa le diverse componenti etniche e religiose del paese nella lotta contro l’occupazione straniera. Il successo conosciuto dal Wafd negli anni ’20 e per buona parte degli anni ’30 era dovuto al fattodi aver assunto il ruolo di promotore delle istanze nazionaliste del paese; ma il suo carattere rimase sempre elitario ed esso non lottò mai per un vero cambiamento sociale – timoroso forse di dare vita a un movimento di cui avrebbe potuto perdere il controllo. Come risultato di questa ritrosia, la connessione fra le masse e la vita politica egiziana rimase sempre molto debole.
La popolarità del Wafd cominciò a declinare con la ratifica del Trattato anglo-egiziano del 1936, che in teoria prevedeva la fine del dominio britannico sull’Egitto, ma in pratica rimase un documento dal valore più simbolico che reale. Se le truppe britanniche abbandonarono in effetti il paese – con l’eccezione non indifferente della zona attorno al Canale di Suez – nella pratica gli accordi non intaccarono se non superficialmente il potere del governo di Londra. Questo fu interpretato da diversi sostenitori del Wafd come un vero e proprio tradimento della causa nazionale.[2]
Inoltre, se il relativo benessere che aveva caratterizzato l’Egitto del primo quarto di secolo aveva permesso al Wafd di concentrare l’attenzione sulla questione dell’indipendenza – e di distoglierla quindi dalle sue contraddizioni interne – la crisi economica degli anni trenta, seguita dalle ristrettezze originate dalla seconda guerra mondiale, cambiarono gli equilibri politici ed evidenziarono la totale incapacità del Wafd e degli altri partiti coevi di realizzare un’efficace riforma sociale.
Al tempo della pubblicazione de La battaglia, la situazione socio-economica dell’Egitto era ormai disastrosa, e le condizioni di vita in cui versava la maggioranza della popolazione non facevano che peggiorare. L’essenza del problema socio-economico era l’ineguale distribuzione della ricchezza, e le conseguenti enormi sperequazioni sociali:
Circa 10.000 persone possedevano la fetta più grande del capitale nazionale. Questa piccola, influente oligarchia controllava in egual modo la vita politica del paese, e il governo rappresentava i loro interessi e non quelli del resto della popolazione.[3]

L’Egitto del tempo era un paese agricolo, il cui principale prodotto di esportazione era il cotone; il fondamento di ogni attività economica e di ogni speculazione era la proprietà fondiaria, e il problema dell’ineguale distribuzione della ricchezza consisteva essenzialmente in un problema di divisione delle terre.[4] Tra il 1923 e il 1952 era avvenuto un discreto sviluppo dell’industria; ma questa, a carattere prettamente monopolistico,[5] era legata soprattutto al capitale straniero,[6] che sostanzialmente continuò a controllare la vita economica dell’Egitto dai tempi dell’occupazione fino al 1952.[7] Il capitalismo indigenoera innanzitutto un capitalismo agrario; i pochi industriali autoctoni erano membri della borghesia agraria, che spesso mantenevano sterminati possedimenti fondiari.
La stragrande maggioranza dei terreni era in mano a proprietari privati egiziani, ma il sistema di divisione delle terre, rimasto sostanzialmente inalterato da più di un secolo, era profondamente ineguale: nel 1950, circa dodicimila latifondisti (meno dell’1% dei proprietari) possedevano la stessa quantità di terreno di due milioni e mezzo di piccoli proprietari. E anche fra questi latifondisti, una ristrettissima élite di duecento persone, legate per lo più alla famiglia reale, possedeva la fetta più grossa della torta. Che questa situazione portasse a gravi sperequazioni è evidente: da una parte c’erano latifondi sterminati e coltivati in modo estensivo, quando non lasciati incolti per le difficoltà di irrigazione. E dall’altra, si trovava una massa di piccoli possedimenti terrieri, la cui estensione non superava i cinque feddan e spesso era addirittura minore, tanto da non permettere ai proprietari neppure di coltivare quanto necessario alla sussistenza della loro famiglia.[8] La maggior parte di questi micro-proprietari era quindi coperta di debiti e costretta a subire le vessazioni degli usurai: molti terreni erano soggetti a ipoteca, e le proprietà passavano frequentemente di mano.[9] Tuttavia, questi piccoli e piccolissimi proprietari potevano ritenersi fortunati a fronte dei milioni di contadini completamente privi di terra. Otto milioni di persone – circa un terzo della popolazione globale dell’Egitto – che non possedevano nulla, costretti a scegliere fra il lavoro salariato e l’affitto di piccoli lotti di terra; entrambe condizioni di vero e proprio sfruttamento, che rendevano impossibile qualunque miglioramento del livello di vita. La situazione dei locatari si aggravò ulteriormente dopo il 1939, a causa della crescente inflazione e del conseguente continuo aumento dei canoni di affitto: nel 1951 un feddan di terra raggiunse un costo medio di affitto di ottocento lire egiziane, quando il suo valore reale si aggirava attorno alle duecento. Il risultato paradossale fu che l’affitto di un terreno consentiva a un proprietario di guadagnare più di quello che avrebbe ottenuto coltivandolo direttamente.
Le condizioni di vita di quella che era la maggioranza della popolazione egiziana erano dunque pessime. La povertà era la condizione più comune; l’alimentazione era per lo più insufficiente, sia a livello quantitativo che qualitativo. Sebbene le innovazioni tecniche portate dal colonialismo avessero in qualche modo aumentato la produttività agricola, la crescita demografica era stata molto più rapida, e carestie ed epidemie – specie di colera – falcidiavano ciclicamente la popolazione. Le condizioni igieniche erano disastrose, e la mortalità infantile toccava percentuali elevatissime (intorno al 160 per mille sui nati vivi). I fortunati che arrivavano all’età adulta soffrivano di malattie portate da parassiti, frutto della scarsa igiene e dell’assenza di strutture sanitarie – come il tracoma oculare, che colpiva il 90% della popolazione e in molti casi portava alla cecità, e fra le cui vittime eccellenti possiamo ricordare Taha Husayn. La situazione delle campagne era disastrosa, e avrebbe avuto bisogno, per essere risolta, di misure efficaci e generalizzate. Non si trattava semplicemente di porre un limite alle grandi proprietà terriere: era l’intero sistema che doveva essere riformato, era necessaria una rivoluzione sociale.
La crisi economica e le tragiche condizioni dell’Egitto rurale avevano contribuito a diffondere il malcontento in tutti i settori della società egiziana, a esclusione ovviamente di quei privilegiati che avevano tutto l’interesse a vedere mantenuto lo status quo.[10] Il malcontento diffuso era esasperato dalla consapevolezza che i privilegiati, gli “sfruttatori”, costituivano il nocciolo essenziale dei rappresentanti del Wafd e di buona parte dei partiti presenti in Parlamento. Una volta passata in secondo piano la questione dell’indipendenza, divenne lampante ai più che l’attività politica dei partiti al governo si era svolta soprattutto nell’interesse della classe dirigente.
Un interesse che fra l’altro era legato a doppio filo a quelli della Gran Bretagna e delle altre nazioni europee, perché il cotone coltivato in Egitto era destinato alle fabbriche del Lancashire e – come già accennato – i capitali stranieri giocavano la parte del leone nell’economia egiziana e in particolare nell’industria. I ricchi agricoltori e gli industriali indigeni che sedevano in Parlamento erano dipendenti dalla Gran Bretagna.
Gli anni della guerra e i ricchi proventi derivati dall’industria bellica strinsero ancora di più il legame economico fra la classe dirigente egiziana e la potenza coloniale britannica. Questo spiega l’atteggiamento ambivalente del “nazionalista” Wafd nei confronti della Gran Bretagna, e la sottomissione di cui fece mostra in episodi come il cosiddetto incidente del 4 febbraio 1942, che rappresentò forse la pietra tombale della popolarità del partito fondato da Zaghlul. In questa occasione, dopo anni di esclusione dal governo dovuta all’opposizione del re Faruq, il Wafd tornò al potere per volontà della Gran Bretagna, accompagnato dai carrarmati inglesi.[11]
Il crescente odio che ampi strati della popolazione mostravano verso le ingerenze della Gran Bretagna nella vita politica egiziana, compiute con la compiacenza dei partiti al governo, ebbe importanti conseguenze anche sul piano culturale. Nel XIX secolo la “via occidentale allo sviluppo” era parsa a molti intellettuali la strada migliore per modernizzare l’Egitto e strapparlo all’arretratezza e al torpore che lo avevano caratterizzato per secoli. Ma adesso, lo stretto legame che univa proprietari terrieri, industriali, Parlamento e potenza coloniale, portò buona parte dell’opinione pubblica e degli intellettuali a rigettare in blocco la cultura e la struttura politica di modello europeo. L’era di avvicinamento all’Europa, inaugurata centocinquant’anni prima dal grande riformatore Muhammad ‘Ali,[12] stava volgendo al termine: la questione dell’indipendenza stava assumendo sempre più il carattere di una rivendicazione identitaria, non semplicemente politica, bensì culturale.[13]
Di fronte al montare dell’opposizione popolare, il Wafd e gli altri partiti liberali tentarono di correre ai ripari, anche se nella pratica non furono in grado di realizzare alcuna riforma significativa. Una proposta di riforma agraria fu discussa lungamente ma bocciata in via definitiva nel 1947; e anche dal punto di vista della legislazione sul lavoro, i risultati ottenuti dai governi liberali furono generalmente poco incisivi.[14] Le poche leggi che riuscirono a passare in un parlamento composto in larga parte da proprietari terrieri e membri dell’aristocrazia furono di rado applicate; come risultato, questi tentativi non solo non riuscirono a soddisfare le impellenti necessità di quel popolo che avrebbero dovuto rappresentare; ma
ironicamente, contribuirono loro stessi alla radicalizzazione politica che esplose dopo la guerra. Anche senza considerare se abbiano poi trattato in modo adeguato o meno uno qualsiasi dei problemi socio-economici, [i partiti] dovettero in ogni caso portarli all’attenzione del pubblico durante le elezioni, contribuendo così all’educazione politica del pubblico egiziano, e alla sua radicalizzazione.[15]

Nessuno dei partiti politici presenti nel paese riuscì a rispondere alle esigenze della mutata situazione socio-politica. Neppure le altre voci autorevoli presenti nel paese, la monarchia e l’establishment religioso tradizionale, furono dal canto loro in grado di assumersi questa responsabilità. Il giovanissimo e promettente principe Faruq, salito al trono appena sedicenne nel 1936, si era trasformato in pochi anni in un playboy debosciato e obeso, noto al popolo soprattutto per la sua collezione di pornografia e di automobili (ne possedeva duecento, ...

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